Ma io davvero sono femminista? Mi chiedo. Spesso. Me lo chiedo perché ho sempre la latente sensazione che, ogni qualvolta ci auto-assegniamo un’etichetta, quel “titolo” perda improvvisamente di senso. Come un palloncino. Stiamo lì a gonfiarlo, e lo gonfiamo, con le nostre migliori intenzioni a mostrarlo, orgogliosi, e far festa e, d’un tratto, scostando leggermente il pollice, o l’indice – non fa differenza – dall’apertura lo vediamo sgonfiarsi e svolazzare sputacchiando per aria.
Ho gonfiato il mio palloncino con su scritto – a lettere cubitali – FEMMINISTA per anni. Leggo – tranne che per ragioni accademiche – solo poesia scritta da donne. Ho letto Sibilla Aleramo e Anna Banti, per esempio. Virginia Woolf e Simone de Beauvoir, ça va sans dire. Bell Hooks, Susan Sontag e Carla Lonzi, ultimamente. Prima di guardare un film, sto lì a spulciare il curriculum del o della regista come fosse un bugiardino e, se a fine serata andrò a letto entusiasta, il giorno dopo chiederò a chiunque incroci il mio cammino: “Ma tu la conosci Haifaa Al-Mansour?” oppure “Ma tu l’hai visto Vogliamo anche le rose?” e “Le spiagge di Agnès”? Ecco, Le spiagge di Agnès: «Ho cercato di essere una femminista gioiosa. Ma ero solo molto arrabbiata».
Io sono molto arrabbiata. Lo sono perché spesso riconosco quanto il sistema patriarcale abbia inciso, e incida tutt’oggi, sulla mia vita. Su tutti gli ambiti della mia vita. Sull’organizzazione dei ruoli all’interno della mia famiglia, per esempio. Una famiglia (quella nucleare, meglio non andare troppo oltre), dopotutto, “progressista”: mio padre dirigente sindacale di sinistra, mia madre insegnante. Sul mio percorso formativo, sul mio lavoro, sulle mie attività sociali e culturali. Sull’attenzione che – seppur soffocata – presto alle aspettative sociali nei confronti di una donna di trent’anni quale sono. Sulle mie relazioni sentimentali, anche: qual è il mio posto? Quali sono i miei limiti? In che modo comunico? Sulle persone che mi circondano. Sulla vecchia “militanza” nella Napoli d’un decennio fa, durante la quale io, femminista, odiavo le donne. Mi infastidivano. Dal momento in cui entrai, durante il movimento dell’Onda, in una stanzetta annebbiata dal fumo di sigaretta fino a quando, con un Congresso, lasciai le organizzazioni studentesche che avevo – in parte – guidato, le poche donne che mi circondavano – e con poche eccezioni – non erano meritevoli della mia piena considerazione. I maschi dettavano i tempi della “nostra” azione politica. I maschi parlavano nelle riunioni, per ore. I maschi incitavano la folla ai cortei. I maschi contrattavano con le forze dell’ordine. I maschi intervenivano nelle sedi istituzionali. I maschi facevano le interviste. I maschi litigavano con altri maschi nelle cosiddette “assemblee di movimento”. E le femmine? Striscioni, cartelli e “questione di genere”. E io? Io, che fin da bambina avevo avuto i riflettori puntati su di me e le aspirazioni (mie? Chissà) da “prima della classe”, non avrei mai potuto – tra tutti quei maschi – non ritagliarmi il mio spazio da protagonista.
Il punto è che se una donna espone un’opinione, e quell’opinione viene sottostimata, allora tutti – forse anche lei stessa – crederanno che le sue opinioni non siano valide. Se una donna viene molestata, e la causa della molestia è attribuita a, per esempio, una gonna corta, allora tutti – forse anche lei – crederanno che non avrebbe dovuto indossarla. Se una donna viene ammazzata, e l’assassinio avviene, per esempio, in seguito al cosiddetto “ultimo incontro” con l’ex (e mai parole potrebbe essere più tristemente adeguate), allora tutti crederanno che non avrebbe dovuto incontrarlo.
E probabilmente, adesso, gli stessi tutti risponderanno che no, non è vero, non è così: l’opinione di quella donna è valida esattamente quanto quella di un uomo, la minigonna di quell’altra non giustifica in alcun modo la molestia subita, spostare l’attenzione sulle azioni della donna ammazzata e non dell’assassino si chiama “vittimizzazione secondaria”.
Ma la realtà è che, a ognuna di queste razionalissime (e ovviamente condivisibilissime) controbattute, seguirà un flebile ma, pronunciato o soffocato dentro, anche con un po’ di vergogna, nel migliore dei casi. A riprova che sì, quella è LA ragione, ma in questo mondo va così, e quindi un po’ bisogna adattarcisi.
E dopotutto il mondo va così da millenni, da quando Eva mangiò quella dannatissima mela! Allora come posso, con tutti gli strati di subalternità, emarginazione, stereotipi che mi hanno cucito addosso da quando sono nata, perché femmina sono nata, liberarmi d’un tratto del patriarcato (e maledico quanto sia stra-abusato questo termine, al punto da renderlo innocuo) che tutti e tutte noi abbiamo dentro?
Oggi, io che non odio più le donne (e che probabilmente non ho mai odiato davvero le donne perché odiamo nell’altro ciò che non sopportiamo di noi stessi – e come avrei potuto sopportare il mio essere donna in un contesto di uomini dominanti?), che mi riconosco in una comunità globale e che – come scriveva Gioconda Belli – “mi sveglio ogni mattina e benedico il mio sesso”; io, che cerco di essere femminista, e lotto tutti i giorni con me stessa e con il mondo per una società che possa definirsi tale, riconosco che il patriarcato si fonda su due enormi pilastri: sul terrore aggressivo di chi vede lentamente sgretolarsi la fortezza di privilegio millenaria costruita attorno al suo, di sesso, e il senso di colpa, di noi altre.
Quindi, a conclusione di quello che vuole essere un contributo, e un po’ è stata un’autoflagellazione, propongo un esercizio. Prendete un palloncino, gonfiatelo con i se fossi, se avessi, se avessi detto, se avessi fatto, se facessi, se potessi, se volessi – e con tutti i se che assillano quotidianamente la vostra vita, annodatelo ben bene e poggiatelo a terra. Scamazzatelo, si dice a Napoli. Schiacciatelo forte con la suola della vostra scarpa più bella. Che scoppi. E per quanto riguarda la fortezza, è destinata a un cumulo di macerie.
Questo articolo è parte di Unite, una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla.