Nakazawa Keiji (中沢啓治, 1939-2012) è stato uno degli artisti più importanti della storia del fumetto giapponese. Con la sua opera monumentale Gen di Hiroshima (はだしのゲン, Hadashi no Gen, “Gen a piedi scalzi”, 1973-1987) è riuscito a far compiere il giro del mondo alla tragedia del 6 agosto 1945 con una potenza molto vicina a quella della genbaku bungaku (原爆文学, “letteratura della bomba atomica”).
Hadashi no Gen non è solo un prodotto di intrattenimento per un pubblico adulto; con il tempo ha preso la forma di un’eccellente opera educativa, letta e studiata in numerose scuole dell’arcipelago e oltre. Il desiderio di perseguire una giustizia universale, più che di ottenere il riscatto per il proprio Paese, emerge anche in altre sue opere, come Kuroi ame ni utarete (黒い雨にうたれて, “Investito dalla pioggia nera”, 1968), in cui si concentra sulle ingiustizie del mercato nero di Hiroshima, e Geki no Kawa (ゲキの河, Il fiume Geki), dove narra la vita di un ragazzo nato nello stato fantoccio del Manciukuò (満州国, Manshūkoku) durante l’occupazione giapponese, e le atrocità commesse dalle milizie del Dai Nihon Teikoku nella regione nord-orientale della Cina.
È importante ricordare che nonostante Gen di Hiroshima venga spesso considerato erroneamente un racconto autobiografico, è in realtà un’opera di fiction! Al contrario, il fumetto che l’ha preceduto, Ore wa mita (俺は見た, Io l’ho visto, 1972) narra le vicende realmente accadute all’autore, da poco prima del bombardamento della sua città natale fino a una decina d’anni dopo.
L’infanzia di Nakazawa Keiji a fumetti
Il 2 settembre 1972, Ore wa mita fece la sua apparizione sul celebre periodico per ragazzi di casa Shūeisha (集英社), Weekly Shōnen Jump (週刊少年ジャンプ, Shūkan Shōnen Janpu), rappresentando, allo stesso tempo, un’ode alla madre defunta e una profonda critica alla guerra e alla corsa agli armamenti nucleari. La memoria e il rimpianto si attestano come temi centrali sin dalla prima pagina: «Quando vuoi ripagare i tuoi genitori, è già troppo tardi […] Sembra che mia madre fosse venuta al mondo per soffrire… e ha sofferto fino al momento in cui è morta. Ma avrebbe sofferto molto di meno se non fosse stato per la guerra. Non riesco a ricordarmi un singolo giorno che non fosse stato duro per lei».
L’autore rievoca i tempi di guerra, quando era costretto a correre nei rifugi antiaerei nel cuore della notte, evento che si ripeteva frequentemente a causa della vicinanza con la stazione navale di Kure, dove il fratello maggiore Yasuto lavorava come saldatore. Ricorda la fame che lo attanagliava e le occasioni in cui, insieme al fratello minore Susumu, rubava il poco riso che i genitori riuscivano a procurarsi. La famiglia, da generazioni, si dedicava alla pittura tradizionale alla laccatura; fu proprio osservando i dipinti di suo padre Nakazawa Harumi che in Keiji nacque il desiderio di diventare un artista, una volta cresciuto. La mattina del 6 agosto, dopo il falso allarme della sirena antiaerea, il bambino si incamminò verso scuola, sotto il cielo azzurro di Hiroshima. Era ignaro del fatto che sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe salutato suo padre, sua sorella maggiore Eiko e suo fratello Susumu.
L’autore scrive: «Il muretto del cortile scolastico fu ciò che separò la vita dalla morte, per me». Dopo l’esplosione perse i sensi per lungo tempo, mentre il cielo si riempiva della luce arancio-giallastra «di un milione di lampadine che esplodevano», per poi riprendere conoscenza con un chiodo conficcato nella guancia. La donna con cui stava parlando fino a pochi istanti prima lottava per liberarsi da una pila di macerie, e la sua pelle, annerita, sembrava starsi sciogliendo. Il bambino, attraversando quella che definisce «un’infinita processione di spettri viventi» si precipitò verso casa, trovandola lambita dalle fiamme. Dopo aver appreso, grazie alla vicina – alla quale i vetri delle finestre erano stati conficcati nel volto a seguito dell’esplosione – dove si trovasse sua madre, si diresse verso Kawaguchi Dōri. Lì, Kimiyo, che aveva appena dato alla luce sua sorella Tomoko, gli narrò di come aveva tentato, invano, di salvare gli altri membri della famiglia, rimasti intrappolati tra le macerie in fiamme.
Dal suo racconto emergono con impressionante nitidezza le grida di Susumu, la disperazione del padre Harumi e il macabro silenzio di Eiko. Calpestare i cadaveri non turbava più Keiji, profondamento scosso da tutto ciò che gli era accaduto in così breve tempo. Dopo essersi ricongiunti con Yasuto ed essersi trasferiti a Eba, a poco più di 3 chilometri dall’epicentro dell’esplosione, Kimiyo chiese ai figli di recuperare i resti della famiglia tra le ceneri della casa.
L’irraggiungible accettazione del lutto
«Quando sentii le ossa di mio padre, mia sorella e mio fratello tintinnare nel secchio, provai per la prima volta una sofferenza autentica».
Dopo quel tragico momento, le ferite infette sulla sua testa, la povertà e la morte per malnutrizione della sorellina Tomoko, a soli quattro mesi dalla sua nascita, resero sempre più reale la sofferenza che sembrava provenire da un incubo da cui il protagonista non riusciva a svegliarsi. Poi, un debole bagliore nell’oscurità: durante il terzo anno di scuola elementare, si imbatté per la prima volta ne La nuova isola del tesoro (新宝島, Shin takarajima, 1947) di Tezuka Osamu (手塚治虫, 1928-1989), l’opera che lanciò il dio dei manga verso il successo. Fu il primo fumetto in assoluto sul quale il bambino avesse posato lo sguardo e, da quel momento in poi, le librerie si riempirono di manga. Pur di poterseli permettere, lavorava instancabilmente raccogliendo rifiuti per strada e, da lì a poco, si trasferì nella capitale. Consapevole di essere sopravvissuto al disastro della bomba atomica, affrontò le numerose difficoltà che incontrò sul suo cammino con grande determinazione. A sostegno del suo coraggio, vi era il nobile sogno di condurre la madre in visita a Tōkyō – una fantasia che, tuttavia, non riuscì mai a realizzare.
Nonostante l’immenso dolore, Nakazawa Keiji continuò a vivere lì con sua moglie Misayo Yamane (山根ミサヨ) e la loro primogenita, portando avanti la sua battaglia contro l’ingiustizia e la barbarie della guerra, sia attraverso i suoi fumetti, si mediante lezioni, conferenze e discorsi pubblici.
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