Il caso O.J. Simpson è la prima stagione di American Crime Story, serie antologica dedicata a casi giudiziari che hanno avuto grande risonanza mediatica. La prima stagione è dedicata al processo giudiziario contro O.J. Simpson, ex stella del baseball con qualche partecipazione hollywoodiana alle spalle, accusato dell’omicidio dell’ex moglie Nicole Brown Simpson e del suo amante Ronald Lyne Goldman.
Prodotta da Ryan Murphy, già produttore di American Horror Story, questa prima stagione è stata scritta e diretta da Scott Alexander e Larry Karaszewski. Se la stagione avesse l’obiettivo di raccontare un semplice processo giudiziario probabilmente inizierebbe col ritrovamento dei cadaveri, ma la scelta di Alexander e Karaszewski dimostra sin dal principio che Il caso O.J. Simpson sarà un caso mediatico prima che giudiziario.
Infatti, O.J. Simpson è una persona di colore accusata di omicidio in un Paese che solo due anni prima è stato tramortito dai disordini di Los Angeles del 1992 provocati dell’assoluzione di alcuni agenti dall’accusa di uso eccessivo della forza nell’arresto di Rodney King, tassista afroamericano. Sono proprio le immagini, di quei tafferugli a dare l’inizio della prima stagione di American Crime Story. Questo contesto è fondamentale per comprendere Il caso O.J. Simpson. Gli avvocati saranno brillanti nello sfruttare quelle ferite non ancora rimarginate per raggiungere i loro obiettivi.
Scott Alexander e Larry Karaszewski sfruttano le storie dei vari personaggi coinvolti per mostrare come Il Caso O.J. Simpson sia stato non solo caso giudiziario e mediatico, ma anche evento che ha sconvolto delle vite. Ogni puntata è fondamentale per comprendere le conseguenze dei due processi sulle esistenze dei protagonisti con un’attenzione particolare agli avvocati dell’accusa e della difesa che hanno avuto un ruolo fondamentale in un processo ricco di colpi di scena e seguitissimo negli Stati Uniti.
Il processo per la morte di Nicole Brown Simpson, ex moglie di O.J. Simpson, e del suo amante Ronald Lyne Goldman inizia il 3 ottobre 1995. Durato 253 giorni e concluso con un verdetto emesso in meno di quattro ore, il caso è stato ricco di contraddizioni e contrapposizioni. Quella messa in scena dai registi è un’America in cui sono ancora evidenti le differenze tra uomini e donne, ricchi e poveri, bianchi e neri. Binomi mostrati allo spettatore attraverso le storie di personaggi difficilmente inquadrabili in una sola categoria e che per questo sono perfetti per rappresentare tutti i paradossi.
Tra i tanti paradossi c’è sicuramente quello di O.J. che è sì nero, ma è soprattutto ricco e famoso ed è questo che gli permetterà di ottenere una serie di privilegi che non sarebbero mai stati concessi ad una persona povera e sconosciuta, al di là del colore della pelle.
Tra i privilegi dell’essere ricco rientra la possibilità di permettersi un avvocato come Robert Shapiro, interpretato da uno John Travolta in grande rispolvero. L’elemento è importante se si considera che saranno proprio i rapporti privilegiati di Shapiro con la polizia a permettere la fuga spettacolare di O.J. seguita da milioni di telespettatori.
L’essere famoso, invece, comporta avere su di l’attenzione morbosa di un intero paese. Sintomo di un interesse malsano per i casi di cronaca nera che era già presente nel 1995 e che tutt’oggi accompagna la società e il mondo dei media. La rappresentazione di quella che viene definita come la vicenda giudiziaria americana più pubblicizzata di sempre e che si concluse il 3 ottobre 1995 è avvincente e interessante da guardare proprio per la presenza di dinamiche mediatiche che ancora oggi, a venticinque anni di distanza, influenzano alcune vicende giudiziarie. Si pensi alla fuga di notizie riservate, all’interesse ossessivo, all’influenza che la rappresentazione televisiva ha sull’opinione pubblica. Tutti elementi resi esplosivi dal procedimento giudiziario americano che attribuisce ad una giuria il compito di emettere un verdetto.
La prima stagione di American Crime Story evidenzia il problema, oggi esploso in tutta la sua centrale importanza per il dibattito pubblico, del cosa si possa dire ma soprattutto non dire. Si tratta di quali parole possano essere dette, se quelle parole possano in qualche modo offendere qualcuno, in che misura sia lecito non farle pronunciare rischiando di tutelare la sensibilità di qualcuno e di ledere il diritto di parola di altri.
Ma, soprattutto, mette in risalto quanto in un contesto mediatico la cosa più importante sia proporre una storia efficace, credibile. Non conta se vera o falsa ma credibile. Ogni storia in un contesto simile diventa puro intrattenimento. Un intrattenimento che ha il potere di cambiare la percezione della realtà. Raccontare una storia che sembri credibile sin dall’inizio è fondamentale. Nessuno vuole pensare di aver creduto ad una storia falsa, di aver sbagliato. Il caso O.J. Simpson mette in luce quanto la maggior parte delle persona abbiano bisogno di storie più che di fatti. I fatti esistono, certo, ma quello che cambia il modo di percepirli, almeno per la massa, è la storia che li accompagna. Una buona storia è tutto.
Fonte immagine: wikimedia.org