Cinema di A24: 4 proposte anti-eroe

Cinema di A24: 4 proposte anti-eroe

Fondata il 20 agosto 2012 da Daniel Katz, David Fenkel e John Hodges ispirandosi al nome della semi-autostrada A24 Mendrisio-Stabio, l’azienda cinematografica è nata con l’intento di innovare il panorama cinematografico attraverso la promozione e distribuzione di opere audaci e originali. Fin dai suoi primi passi, l’azienda ha riscosso notevole attenzione grazie alla distribuzione di titoli come Spring Breakers (2013) di Harmony Korine, consolidando la propria reputazione anche acquisendo i diritti di opere quali Ex Machina, Room e The Witch, tutte caratterizzate da una profonda indagine delle complesse sfumature della condizione psicologica umana. Con il lancio della propria divisione di produzione televisiva nel 2015 e il successo straordinario di Moonlight di Barry Jenkins, insignito dell’Oscar per il miglior film nel 2017, A24 si afferma come punto di riferimento per un cinema che trascende il mero intrattenimento, ponendo l’accento sull’esplorazione dell’intimità emotiva e delle fragilità dell’individuo. Anche dopo il distacco del cofondatore John Hodges nel 2018, l’azienda ha continuato a espandersi, arricchendo il proprio catalogo con una filmografia e una serie di produzioni che testimoniano un’intensa ricerca sull’esperienza umana, come evidenziato anche  da Manuela Santacaterina, la quale sottolinea in un articolo sulla rivista online di Hollywood Reporter come il cinema di A24 abbia saputo reinterpretare il linguaggio cinematografico oscillando tra  realtà e sogno.

In questo contesto, analizzeremo in che modo e per quali ragioni il cinema di A24 selezioni opere che indagano la condizione psicologica nella società contemporanea, concentrandosi in particolare su cinque film scelti che condividono la tematica del “viaggio dell’anti-eroe”, tra quelli distribuiti all’interno del cinema A24, esaminando i meccanismi narrativi e stilistici utilizzati per dare vita a personaggi tormentati e a situazioni emotivamente complesse: Beau ha paura (2023) di Ari Aster, The Lighthouse (2019) di Robert Eggers,  Pearl (2022) di Ti West e Il sacrificio del cervo sacro (2017) di Yorgos Lanthimos.

1) Beau ha paura di Ari Aster (2023)

Beau ha paura, “l’ultima fatica” di Ari Aster, regista già noto per l’inquietante Midsommar, si radica nel suo cortometraggio omonimo, espandendone la narrazione in un lungometraggio di quasi tre ore. Se il corto originale, con la sua brevità e l’interpretazione intensa di Billy Mayo, raccontava una vicenda surreale con tratti di verosimiglianza, il film assume le forme di un thriller psicologico che sconfina nell’horror e sfiora il territorio del fantasy in alcune sequenze. Il punto di partenza è l’apparente banalità della storia di Beau (interpretato da Joaquin Phoenix, nomination ai Globe 2024 come migliore attore), un uomo pervaso dall’ansia la cui esistenza è scandita dalla routine di antidepressivi prescritti dal suo terapeuta. La storia si articola attraverso una serie di episodi surreali e inquietanti che riflettono il suo stato mentale alterato e le sue paure più profonde. La sceneggiatura di Aster, profondamente personale e volutamente esagerata si costruisce come una parabola psicologica, attraverso una struttura narrativa onirica e surreale che esplora il vissuto di un uomo consumato da paure profonde e insicurezze paralizzanti. In questo senso, Ari Aster ci conduce in un viaggio profondamente introspettivo nella psiche di Beau, in cui l’elemento centrale della narrazione è proprio il viaggio dell’eroe (o anti-eroe) di Beau verso la madre.

Un viaggio che all’inizio sembra star portando Beau al suo raggiungimento che ben presto si trasforma in un confronto con i suoi traumi più profonde. La suspense (che Hitchcock distingueva dalla sorpresa) in Beau ha paura non si basa tanto su minacce esterne, bensì sulla progressiva discesa del protagonista in un vortice di paranoia e allucinazioni. La tensione cresce inesorabilmente, alimentata dalle sue paure interiori e dalla sua incapacità di distinguere tra realtà e immaginazione. Ci si addentra dunque pian piano nei meandri della psiche di Beau, mettendo a nudo le sue paure, le sue insicurezze e le sue ossessioni. Aster, nel raccontarci sullo schermo questo viaggio, utilizza un linguaggio filmico surrealista e a tratti black humor per esplorare i lati oscuri della mente umana, creando un’opera che, pur essendo a tratti disturbante, risulta profondamente toccante e universale. Anche il rapporto con la figura materna emerge come tema centrale, nella narrazione poiché quest’ultima esercita un controllo soffocante sulla vita di Beau. Il talento di Aster risiede anche nell’abilità di orchestrare i diversi generi cinematografici, dosandoli con maestria nei vari momenti della narrazione e amalgamandoli in un racconto unitario, surreale e pregno di significati. L’opera si avvale di una scenografia eclettica e fortemente espressiva, che plasma ogni ambiente con minuzia, così come i costumi, il trucco e gli effetti visivi, tra cui spicca la sequenza “fiabesca”.

La fotografia, realistica e al contempo allucinogena in alcune sequenze estreme (come quella iniziale e finale), contribuisce a creare un’atmosfera di straniamento e inquietudine. La regia si rivela versatile, ma sempre focalizzata sulla creazione di una tensione costante, grazie all’uso sapiente della profondità di campo e della macchina a mano. L’interpretazione degli attori, sospesa tra il comico e il tragico, accentua la dimensione grottesca della narrazione. Il montaggio, equilibrato e non eccessivamente frenetico, gioca sul contrasto tra le immagini della vita esteriore e interiore del protagonista, con climax che, incalzati dalla colonna sonora, sottolineano i momenti di maggiore intensità emotiva. L’opera di Aster, pur non offrendo risposte semplici e definitive, pone interrogativi importanti sulla condizione umana contemporanea, sottolineando come le dinamiche culturali, economiche e familiari del nostro tempo contribuiscano ad alimentare un senso di insicurezza e alienazione collettiva. Beau ha paura diventa, per concludere, un’esplorazione intensa e coinvolgente delle fragilità che ci accomunano, un invito a riconnetterci con la nostra essenza umana in un mondo sempre più disorientante.

2) The Lighthouse (2019) di Robert Eggers

Nel panorama cinematografico contemporaneo, The Lighthouse di Eggers emerge come un’opera di singolare pregio, contraddistinta da una raffinata esplorazione delle dinamiche umane e da un’estetica che attinge alle radici del cinema muto e delle origini. Mare aperto, la chiglia di una piccola imbarcazione fende le acque scure mentre due figure avvolte in pesanti cappotti neri scrutano l’orizzonte. Sono un ragazzo e un vecchio, e il loro sguardo è catturato da un punto luminoso che emerge dalla nebbia: è la luce di un faro. Ma la storia dei due guardiani è solo frutto della fervida immaginazione di Eggers, o esiste un fondo di verità? The Lighthouse, oltre ad essere un adattamento del racconto di Edgar Allan Poe, affonda le sue radici in una tragedia vera avvenuta all’inizio dell’Ottocento sull’isola di Smalls, al largo della costa del Pembrokeshire, in cui due guardiani, Thomas Griffith e Thomas Howell, giunsero al faro degli Smalls. Secondo la storia vera, il loro rapporto era teso e, dopo la morte di Griffith in un incidente, Howell, temendo di essere accusato, nascose il corpo. La situazione degenerò con la decomposizione del cadavere e una tempesta rivelò un braccio putrido, portando Howell alla follia totale. Sebbene si discosta dalla storia originale, la pellicola si articola attraverso una struttura narrativa ellittica e ambigua, che invita lo spettatore a una molteplicità di interpretazioni.

Ai tempi del drammaturgo Bertolt Brecht, venne messo molto in campo ciò che egli definiva “la tecnica dello straniamento” e tale scelta registica, non era un mero esercizio di stile, poiché questa tecnica si rivela funzionale non solo alla narrazione ma anche alla rappresentazione di una realtà complessa e sfuggente, in cui i confini tra sanità e follia, realtà e immaginazione, si fanno effimeri. L’ambientazione, un’isola isolata del New England alla fine del XIX secolo, contribuisce a creare un’atmosfera di isolamento e claustrofobia, elementi che giocano un ruolo cruciale nello sviluppo della narrazione. La storia segue le vicende di due guardiani del faro, Thomas Wake ed Ephraim Winslow, le cui esistenze vengono sconvolte dall’esperienza estrema della convivenza forzata in un contesto tanto isolato quanto carico di significati simbolici. La sceneggiatura, frutto della collaborazione tra Robert Eggers e il fratello Max, si distingue per la sua ricchezza dialogica e per la capacità di evocare atmosfere di tensione e mistero attraverso dialoghi, intrisi di riferimenti letterari e filosofici, che contribuiscono a delineare la psicologia complessa dei personaggi e a svelare le loro fragilità, le loro ossessioni e i loro desideri repressi. Winslow e Wake si configurano all’interno di questo discorso come anti-eroi perché incarnano una moralità ambigua e comportamenti autodistruttivi, che rivelano il lato oscuro dell’essere umano: Winslow, tormentato dal senso di colpa e spinto da un’ambizione ossessiva di dominio sul faro, e Wake, prepotente e manipolatore, ossessionato dal mantenimento del potere e dalla sua figura mitologica, si trovano intrappolati in un ciclo di violenza e isolamento che li porta a confrontarsi con i propri demoni interiori senza alcuna possibilità di redenzione. La loro incapacità di collaborare e di trovare una coesistenza pacifica, amplificata dal continuo abuso di alcol e da tensioni esplosive, li trasforma in figure tragiche e disturbanti, simbolo del degrado morale e della discesa nell’oscurità, contribuendo così a rafforzare l’atmosfera nichilista e inquietante del film.

La regia di Eggers si rivela nel dimostrare questo contrasto tra i personaggi come un elemento distintivo dell’opera, soprattutto per la scelta di adottare una tecnica di ripresa in 35mm e in bianco e nero che, sebbene potrebbe apparire anacronistica in un contesto cinematografico dominato dalle tecnologie digitali, si rivela in realtà una mossa audace e consapevole, volta a conferire al film un’estetica vintage, quasi a tratti noir, e ad accentuare il senso di claustrofobia e isolamento. Il formato dell’immagine (1.19:1), che richiama il cinema muto, contribuisce a creare un’atmosfera di mistero e inquietudine, mentre la fotografia, curata da Jarin Blaschke, si distingue per i contrasti netti e per un’illuminazione che contribuisce a creare un’atmosfera onirica. Un ulteriore elemento di pregio del film è la colonna sonora, curata con particolare attenzione al fine di creare un’atmosfera di suspense e terrore. Ciò che sentiamo costantemente sono suoni e musica inquietanti, combinati da silenzi improvvisi ed effetti, che portano lo spettatore a una vera esperienza sonora inquietante che amplifica le emozioni e le sensazioni evocate dalle immagini.

Di conseguenza, The Lighthouse è considerato un’opera artistica di grande livello, in grado di esplorare le profondità dell’animo umano e fornire una riflessione innovativa e stimolante sulla condizione esistenziale. A causa di ciò, anche se la storia di The Lighthouse è basata su una tragedia reale, in diversi casi si discosta dalla realtà. I fratelli Eggers hanno utilizzato una grande quantità di libertà creativa e hanno modificato alcuni elementi della storia per soddisfare le esigenze narrative. Tuttavia, il film riesce a riprodurre con successo l’atmosfera di angoscia e solitudine che caratterizza la tragedia degli Smalls. Oltre alla storia vera, il film attinge a piene mani da diverse opere letterarie, tra cui Il Tempio di H.P. Lovecraft e La Ballata del Vecchio Marinaio di Samuel Taylor Coleridge.

3) Cinema di A24 e Horror: Pearl (2022) di Ti West

Ambientato nel Texas del 1918, il film si svolge in una fattoria isolata dove Pearl vive con i suoi genitori immigrati tedeschi, mentre suo marito Howard è arruolato nell’esercito. La situazione familiare, segnata dalla rigidità della madre Ruth e dalla malattia invalidante del padre, costringe Pearl a una vita di sacrifici e isolamento, elementi che si intrecciano con le pressioni esterne della pandemia di influenza spagnola e della guerra mondiale. Pearl aspira a sfuggire alla monotonia rurale per diventare una ballerina di fila o una star del cinema, ma il rigido controllo di Ruth e l’assenza di opportunità le impediscono di realizzare i suoi sogni. Il progressivo deterioramento mentale della protagonista è rappresentato attraverso gesti sempre più violenti e comportamenti disturbanti, come l’uccisione di animali che vengono dati in pasto a un alligatore chiamato Theda. L’ossessione per il successo e l’isolamento portano Pearl a sviluppare una psicosi che culminerà in una serie di eventi tragici. Pearl attraversa la soglia del mondo esterno uccidendo i suoi genitori, atto di violenza che segna il suo ingresso in un territorio oscuro e pericoloso. Durante il suo viaggio, Pearl incontrerà diversi personaggi che diventano le sue vittime: il proiezionista, Mitsy e, infine, suo marito Howard. Ogni omicidio rappresenta una prova che Pearl deve superare per raggiungere la sua meta, ma allo stesso tempo la allontana sempre più dalla sua umanità. La prova suprema di Pearl è l’audizione (che richiama molto la protagonista di The Substance), momento cruciale in cui deve dimostrare il suo talento e la sua determinazione. Tuttavia, viene scartata perché non corrisponde ai canoni di bellezza e di “americanità” richiesti. La sua ricompensa, la fama e il successo, si rivela irraggiungibile e la non-accettazione al mondo ordinario è segnato dalla follia e dalla violenza in cui non c’è resurrezione, né elisir da condividere con gli altri. Pearl sprofonda nella sua psicosi, incapace di elaborare il trauma del suo fallimento.

Il viaggio di Pearl è quindi una parodia oscura e disturbante del viaggio dell’eroe in cui la sua sete di successo e la sua incapacità di accettare i propri limiti la portano a compiere azioni mostruose. Anche Pearl non è un’eroina, ma una figura tragica che incarna le contraddizioni e le fragilità dell’animo umano. La rappresentazione della follia, come detto in precedenza, è resa ancora più potente anche dalla performance di Mia Goth, che alterna momenti di vulnerabilità e innocenza a scatti di violenza, culminando in un finale devastante in cui Pearl accoglie il marito Howard con un sorriso inquietante, circondata dai cadaveri dei genitori.

4) Un’ultima proposta del cinema di A24: Il sacrificio del cervo sacro (2017) di Yorgos Lanthimos

Anche questo film può essere letto come un viaggio dell’eroe, o meglio dell’anti-eroe, rielaborato in chiave contemporanea e intriso di riferimenti mitologici. Lanthimos trasforma il mito classico del sacrificio di Ifigenia in Aulide in questa storia, dove il destino di una giovane viene negoziato per il bene collettivo. Questa storia si trasforma in una parabola contemporanea in cui il protagonista si confronta con le conseguenze delle proprie scelte in un contesto che oscilla tra il razionale e l’irrazionale. Steven Murphy, il protagonista, interpretato da Colin Farrell, intraprende un percorso tragico e moralmente ambiguo su questa scia. In tutto il suo percorso, deve sempre affrontare dilemmi morali insormontabili e le devastanti conseguenze delle sue scelte. Inizialmente, Murphy appare come un uomo fortunato che si dedica alla sua carriera e alla sua famiglia. Tuttavia, l’arrivo di un giovane misterioso (evento scatenante) sconvolge la sua vita e impone una scelta estrema: uno dei suoi cari dovrà essere sacrificato per salvare la sua famiglia.

La sua incapacità di combinare l’amore per i suoi cari con la necessità di accettare un destino implacabile lo trascina nella profondità della sua coscienza. È proprio questa lotta interiore, caratterizzata da una costante ambiguità morale, a trasformarlo in un anti-eroe: come i protagonisti precedenti dei film presi in esame di A24, Steven non incarna i tradizionali valori eroici, ma è piuttosto un uomo profondamente imperfetto, vittima delle circostanze e costretto a compiere scelte che vanificano ogni senso di giustizia e integrità. Steven è pertanto anti-eroe moderno, il cui viaggio narrativo, ispirato al mito di Ifigenia, dimostra la continua rilevanza delle antiche storie mitologiche nella società contemporanea. Lanthimos utilizza la struttura di un racconto archetipico in Il sacrificio del cervo sacro per esplorare temi senza tempo come il peso della colpa e la complessità del sacrificio. Attraverso questa rivisitazione, il film sottolinea quanto i miti siano una fonte inesauribile di significato, che può adattarsi a nuovi contesti e parlare con forza all’umanità in ogni epoca. La capacità dell’uomo di raccontare storie diventa così un ponte tra passato e presente, un mezzo per riflettere sulle dinamiche morali che ci definiscono.

Perché il cinema di A24 ci propone anti-eroi?

La risposta risiede nella “filosofia” stessa dello studio, che si è affermato come un faro di innovazione e originalità nel panorama cinematografico contemporaneo. Il cinema di A24 si distingue in un’industria dominata da franchise e blockbuster per il suo impegno nel raccontare storie che sfidano le convenzioni, esplorano la complessità umana e affrontano temi spesso ignorati dal cinema mainstream. Gli anti-eroi, con le loro imperfezioni, le scelte morali ambigue e i conflitti interiori, incarnano perfettamente questa missione, offrendo al pubblico un’esperienza narrativa autentica e spesso destabilizzante con l’intento anche di essere il più vicino possibile al nostro vissuto. Questi personaggi rispecchiano la realtà in modo più sincero rispetto agli eroi tradizionali: sono vulnerabili, fallibili e spesso alle prese con traumi o dilemmi morali profondi. Come in Beau ha paura, in cui la paranoia e l’ansia del protagonista si trasformano in un viaggio metaforico attraverso una mente frammentata, dove i confini tra realtà e allucinazione si confondono, riflettendo il caos interiore di un individuo in lotta con se stesso Pearl, A24 non cerca di fornire risposte semplici o finali consolatori ma piuttosto, invita lo spettatore a confrontarsi con le sfumature dell’esperienza umana, con tutto il suo dolore, la sua bellezza e la sua complessità.

Questo approccio non è casuale: è il risultato di una strategia precisa che punta a creare opere che si distinguano, che lascino un segno nella mente e nel cuore del pubblico, e che spesso vengono classificate come “cinema d’autore” o “horror di prestigio”. Inoltre, la scelta degli anti-eroi come protagonisti riflette il desiderio del cinema di A24 di parlare direttamente a un pubblico di target sia giovanile che culturalmente consapevole, spesso disilluso dalle narrazioni tradizionali e in cerca di storie che rispecchino le loro incertezze e le loro complessità interiori. Gli anti-eroi del cinema A24 non sono mai figure monodimensionali, ma personaggi profondamente umani, capaci di rappresentare le contraddizioni della società contemporanea. Che si tratti di affrontare la pressione sociale, il senso di alienazione o il desiderio di riscatto, questi film costruiscono un dialogo con lo spettatore, chiedendogli di interrogarsi su sé stesso e sul mondo che lo circonda.  Il cinema di A24 non teme di osare e di rischiare, consapevole che il suo successo non dipende da effetti speciali o da grandi campagne promozionali, ma dalla capacità di raccontare storie autentiche. È uno studio che rifiuta di essere incasellato, spaziando tra generi diversi e sperimentando nuove modalità di narrazione. Eppure, c’è una coerenza di fondo: un’attenzione meticolosa ai dettagli, un rispetto per la visione artistica dei registi e una profonda fiducia nell’intelligenza del pubblico. Gli anti-eroi nel cinema di A24 sono l’espressione di questa filosofia, figure che sfidano le aspettative e invitano a riflettere, dimostrando che il cinema può ancora essere un’arte che stimola, sorprende e ispira. Concludendo, il cinema di A24 si distingue per una linea editoriale audace, che combina estetiche visive suggestive con narrazioni introspettive, ridefinendo il cinema indipendente contemporaneo e trasformando la fragilità psicologica in un elemento narrativo centrale attraverso linguaggi visivi unici e tematiche universali.

Fonte immagine e video: Wikipedia, YouTube

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A proposito di Martina Barone

Laureata in Lingue e Culture Comparate presso l'Università degli Studi di Napoli L'Orientale e attualmente studentessa magistrale in Scienze dello Spettacolo e Produzione Multimediale all'Università degli Studi di Padova. La mia passione per le arti in tutte le sue forme dal cinema alla letteratura guida il mio percorso accademico e professionale. Ogni aspetto della creatività mi affascina, e credo fermamente nel potere delle storie e delle immagini di trasformare il mondo che ci circonda!

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