Valentina Galdi nasce a Battipaglia il 17 gennaio 1995. Il suo corto Do we have a chance? partecipa alla rassegna di film indipendenti NiC – Napoli in Cinema, evento organizzato dalla distribuzione cinematografica indipendente NiC del gruppo AVAMAT e dedicato al cinema indipendente. Si tratta di un momento di condivisione tra cineasti e pubblico, con uno spazio riservato alle domande e alle dichiarazioni degli artisti dopo ogni proiezione. Il teaser del corto è su YouTube, e si può visualizzare qui. Do we have a chance? ha vinto numerosi premi, tra cui il Premio Cortissimo TLW Web, promosso da Rai Pubblica Utilità, e il Premio Sorriso ENS.
Chi è Valentina Galdi, autrice e regista di Do we have a chance?
Valentina Galdi è laureata in Economia e Gestione Aziendale e ha conseguito un Master di 1° livello in Marketing Management. Si è avvicinata al mondo dell’arte tra il 2015 e il 2016, fondando una compagnia cinematografica indipendente, The Gladiator Company (ad oggi Gladiarte ETS), di cui è anche presidente.
Tra i suoi lavori, ricordiamo il monologo teatrale Superheroes (2020), scritto per l’organizzazione di arti creative scozzese At The Root Theatre. Gli ultimi cortometraggi che ha scritto e diretto, Memorie Sbiadite e Ali in Gabbia, hanno vinto numerosi premi in festival internazionali. Inoltre, nel 2021, Valentina Galdi ha vinto il premio Il Vince alla IX Edizione del Premio Vincenzo Crocitti International a Roma, come sceneggiatrice e regista emergente.
Qual è l’ispirazione dietro Do we have a chance?
Ho conosciuto persone che hanno vissuto – o vivono ancora – la difficile situazione emotiva del protagonista del corto: si sentono sbagliati, fuori contesto, inadeguati. Questo non perché subiscono necessariamente atti di omofobia veri e propri, anche perché spesso non hanno ancora dichiarato apertamente la loro omosessualità, ma semplicemente perchè sono circondati costantemente da stereotipi di perfezione sociale. Stereotipi che in questo caso riguardano la sessualità, ma possono riferirsi a tanti campi diversi.
È una situazione che non ho vissuto in prima persona, ma che conosco. Lo stesso protagonista è ispirato a una persona a me vicina. Nel mio piccolo cerco di spronare a fare quel passo per uscire dalla gabbia, per sé stessi e non per gli altri. Penso che siamo talmente abituati a giudicare che dovremmo anche imparare a dare meno importanza all’opinione degli altri, ma ascoltando alcune esperienze mi rendo conto che non è così facile.
Quali sono state le sfide e le difficoltà maggiori nell’animazione del corto?
Le sfide sono sempre collegate al trattamento di una tematica simile. Per fortuna, nonostante le numerose difficoltà dovute alla mentalità arcaica ancora presente sul territorio, ho visto molti giovanissimi apprezzare e premiare il cortometraggio. Questo sicuramente mi lascia ben sperare per la società del futuro, ma è ancora un argomento su cui bisogna insistere in questo settore. L’unico rischio, forse quello che più mi spaventa, è che diventi un tema trattato più per cercare consensi che per sensibilizzare il pubblico, e quindi che venga trattato anche da chi non ne sa nulla.
Come sono state rappresentate visivamente la conformità e la paura del giudizio sociale in Do we have a chance?
Ho rappresentato una serie di situazioni apparentemente innocue che però acuiscono il senso di inadeguatezza del protagonista, come il vedere solamente coppie eterosessuali per strada, o un cartellone che rappresenta la “famiglia perfetta”, o ancora bambini che giocano sulla base dei preconcetti. Tutto questo fa sentire il protagonista in una gabbia dalla quale non riesce ad uscire – che viene anche mostrata in due punti del corto, e al di fuori della quale le sagome senza volto della società sono pronte ad additare il “diverso”.
Quali sono le tecniche cinematografiche usate per enfatizzare l’isolamento e la paura del protagonista?
Ho creato molto dettagliatamente la scena della gabbia, nonostante le difficoltà date dal fatto che l’animatrice è ungherese, quindi l’intera produzione è avvenuta da remoto e abbiamo dovuto superare anche la barriera linguistica. Ho voluto fortemente che le sagome non avessero un volto, sia per enfatizzare la mancanza di personalità di chi giudica senza riflettere, sia per mostrare come in realtà il protagonista si senta additato da tutti, senza fare distinzione. Sono tutti carnefici, in egual modo.
Il messaggio di Valentina Galdi con Do we have a chance?
Volevo mostrare un tipo di omofobia che io definisco indiretta, perché non caratterizzata da episodi di violenza fisica o verbale: la sola creazione di una società apparentemente perfetta che ha paura della diversità è una forma di discriminazione. Vorrei che lo spettatore provasse empatia, che si rendesse conto che a volte basterebbe anche solo mettere a proprio agio il prossimo per aiutarlə nella propria lotta interiore. E questo possiamo farlo tutti.
Non voglio sperare troppo in grande, perché ci sono molti lavori che trattano questo tema sicuramente in modo più ampio e dettagliato. Mi auguro solo che Do we have a chance? incoraggi chi sta vivendo situazioni simili a farsi avanti, a vincere la paura e a rischiare, perché, a parer mio, è meglio convivere con la consapevolezza di un rifiuto che con il rimpianto di non averci mai provato.
Fonte immagine: copertina ufficiale del corto, zoomagazine.it
Do we have a chance? Intervista a Valentina Galdi | NiC