Un racconto profondo, un’ambientazione suggestiva. Il nuovo corto Fratelli di carne raccontato dalla regista Paola Beatrice Ortolani.
Riconciliazione, perdono e scoperta di sé sono i temi universali affrontati nel cortometraggio Fratelli di carne che vede al centro del racconto la figura di Michele, il personaggio chiave della narrazione attraverso cui questi temi universali vengono sviluppati. Michele è, infatti, un uomo segnato dal peso del passato che, dopo la morte della moglie, è costretto a tornare dai suoi fratelli nel suo paese d’origine, Olevano sul Tusciano. Qui, dopo iniziali tensioni con il fratello, scaturite da un gesto estremo compiuto da Michele in passato, inizia il suo viaggio di redenzione. Durante questo percorso, il protagonista cerca di ricostruire il rapporto con il fratello e di ottenere il suo perdono, anche grazie al sostegno della loro sorella.
Nello specifico Fratelli di carne è un’opera che attua un profondo scavo negli archetipi dell’inconscio e che indaga sul significato della colpa e su quello dei conflitti interiori. Paola Beatrice Ortolani, attraverso la storia di Luigi (Corrado Taranto), Michele (Giovanni Battaglia), Agnese (Dora Romano) ed Anna (Simona Buono), rievoca il sentimento di irrisolto interiore che attanaglia gli esseri umani, quella “terra del rimorso”, citando uno dei capolavori dell’antropologo Ernesto De Martino, che è sfondo emotivo delle azioni umane. Il film, attraverso suggestioni, sguardi e silenzi, estremamente eloquenti, racconta di una ferita interiore e di un tentativo di redenzione posto in atto attraverso il recupero di un io frammentato.
A distanza di 3 anni dal suo primo cortometraggio, Mami Wata, Paola Beatrice Ortolani ritorna con una nuova pellicola: Fratelli di carne, un cortometraggio che, grazie alla sua intensa narrazione e all’ambientazione suggestiva, ha già ottenuto grande successo classificandosi come film finalista al Chiaroscuro International Film Festival, e semifinalista al Festival del cinema di Cefalù e all’Alta Marea festival. Inoltre, la distribuzione cinematografica NiC, del gruppo AVAMAT, che si distingue per il suo approccio d’avanguardia, ha organizzato per il terzo anno consecutivo la rassegna di film indipendenti NiC – Napoli in Cinema, che include anche Fratelli di Carne tra i film selezionati. Durante questa rassegna, sarà possibile assistere alla proiezione delle interviste ai registi, confrontarsi con essi e partecipare alla visione dei vari film.
Per comprendere meglio l’anima di questo progetto, ascoltiamo le parole della regista che ha ideato, scritto e diretto Fratelli di carne.
Fratelli di carne: intervista a Paola Beatrice Ortolani
1. Fratelli di carne affronta temi universali come il perdono, l’accettazione e la ricerca della pace interiore: c’è qualcosa che ti ha ispirata in particolar modo? In che modo sei riuscita a combinare la complessità dei temi trattati con le esigenze pratiche della realizzazione pratica del film?
L’idea di Fratelli di carne è nata dalla suggestione che ho avuto la prima volta che ho visitato la Grotta di San Michele Arcangelo a Olevano sul Tusciano. Questo luogo, intriso di spiritualità, rappresentava una meta per chi cercava di espiare i propri peccati. Nel Medioevo, i pellegrini portavano pietre, proporzionate alla gravità delle proprie colpe, lungo l’impervia salita che porta alla grotta. Mi ha affascinato l’idea di un peso fisico che riflette un peso interiore, come quello del protagonista Michele. Inoltre, sono rimasta affascinata dai rituali legati alla taranta, che venivano praticati nella grotta: musiche ripetitive e danze sfrenate utilizzate come una forma di esorcismo, capaci di spingere le persone a ballare così intensamente da trovare sollievo e liberarsi dal male. Questi elementi, ricchi di significato simbolico, sono diventati parte integrante della narrazione del cortometraggio.
Il cortometraggio ha richiesto un anno di preparazione, un periodo in cui ho approfondito non solo gli aspetti logistici, ma ho anche avuto modo di comprendere il mondo che volevo raffigurare. Dal punto di vista logistico, il processo è stato molto complesso. Abbiamo affrontato difficoltà impreviste, come nevicate e piogge incessanti (eppure le riprese sono state fatte ad aprile!), che hanno reso tutto più complicato. Tuttavia, credo che queste condizioni abbiano contribuito a rendere l’atmosfera del film ancora più evocativa. La grotta stessa è stata più di una location: era quasi un personaggio, un luogo che respirava e pulsava con i protagonisti. Le difficoltà tecniche sono state affrontate con la determinazione di un team unito e sensibile, in cui tutti cercavano di darsi una mano, anche se bisognava andare oltre le proprie mansioni.
2. Come si delinea il tuo processo creativo? In che modo hai lavorato con gli attori?
La sceneggiatura di Fratelli di carne è nata da un susseguirsi di esplorazioni e incontri. Ho dedicato molto tempo a fare sopralluoghi nelle location in cui avrei ambientato la storia e, in questa fase, ho avuto la fortuna di incontrare persone del posto che mi hanno accolto con grande ospitalità e generosità. Le loro storie personali sono state una fonte di ispirazione preziosa. Mi hanno raccontato di litigi tra fratelli, di famiglie spezzate dall’emigrazione e di legami incrinati dai tradimenti. Questi racconti mi hanno aiutata a delineare la trama del film. Una parte fondamentale del processo creativo è stata il dialogo continuo con gli attori. Ho voluto coinvolgerli già durante la revisione della sceneggiatura, attraverso lunghe conversazioni telefoniche in cui ho ascoltato i loro suggerimenti e osservato come assimilavano i personaggi. Questo confronto mi ha permesso di affinare i dettagli della narrazione e di comprendere meglio il modo in cui ogni attore dava vita al proprio ruolo. Ho avuto l’opportunità di lavorare con tre grandi interpreti: Dora Romano, Giovanni Battaglia e Corrado Taranto, da cui ho imparato moltissimo. Sul set, abbiamo dedicato tempo alla costruzione delle dinamiche familiari tra i personaggi e ci sono stati momenti talmente carichi di emozione che alcuni membri della troupe non riuscivano a trattenere le lacrime durante la scena.
Con i giovani attori, il lavoro è stato altrettanto minuzioso e ci siamo concentrati in particolare sui costumi. Essendo ambientato in un’altra epoca e con personaggi che non avevano battute, i dettagli visivi dovevano trasmettere il carattere e la complessità di ciascuno. Ogni elemento, dai tessuti alla palette cromatica, è stato pensato per aggiungere profondità al loro silenzio. La scena dello stupro è stata indubbiamente la sfida più difficile. È stata girata in condizioni complicate: di notte, dopo una giornata lunga e faticosa, col freddo, in un convento abbandonato che non offriva alcun conforto. L’atmosfera era carica di disagio, imbarazzo e paura, e inizialmente anche io ho trovato difficile gestire queste emozioni. Tuttavia, grazie alla professionalità e alla dedizione degli attori, siamo riusciti a superare quelle difficoltà e a portare a casa una scena delicata e significativa. Per me era fondamentale che, pur trattando un tema così difficile, la rappresentazione fosse rispettosa e mai esplicita.
3. La vicenda dei due “fratelli di carne”, Michele e Luigi, si snoda attraverso la figura, carnale anch’essa, di Anna. Cosa hai tenuto presente per creare i rapporti psicologici (espressi, almeno inizialmente, con i soli sguardi) che intercorrono tra i protagonisti di questo triangolo?
Per costruire i rapporti psicologici tra i protagonisti, sono partita proprio da Anna: lei è una ragazza bella, libera e inconsapevole del proprio potere seduttivo. Essendo stata amica d’infanzia di Michele e Luigi (vivono nello stesso paesino in cui più o meno si conoscono tutti), si relaziona con loro come quando erano bambini, senza accorgersi che però ormai sono adulti, con desideri e pulsioni completamente diversi. Come spiegai all’attore Amato D’Auria, che interpreta Michele, Anna è “inconsapevolmente crudele”. Non c’è malizia nelle sue azioni, ma una leggerezza che rischia di ferire chi la circonda. Poi ho lavorato molto sulla dinamica familiare tra i due fratelli. Ad esempio, una scena tagliata li mostrava da bambini: Michele in difficoltà, portato da Luigi a esplorare l’uliveto di notte, ma lasciato in balia delle sue paure, deriso invece che aiutato. Questo momento racconta una rivalità innata tra i due (come poi si vede anche nel flashback dell’altalena), che non è solo frutto delle circostanze, ma anche della loro diversità caratteriale. Michele è timido, goffo, con un’anima più introspettiva; Luigi, invece, è sveglio, estroverso e già da bambino sembra un piccolo adulto. Ho cercato di tradurre questa complessità psicologica attraverso gli sguardi, che spesso rivelano ciò che le parole non dicono.
4. Come nasce la scelta dei simboli chiave del cortometraggio, come la catenina e la grotta di San Michele Arcangelo?
La scelta della catenina come simbolo è nata dal mio tentativo di immedesimarmi in Anna, una giovane ragazza dell’entroterra campano negli anni ’70. Mi sono chiesta quale oggetto potesse rappresentare per lei qualcosa di significativo. Ho pensato a una catenina come quelle che portavano mia nonna o le nonne delle mie amiche: un oggetto semplice ma ricco di valore affettivo, che parlava di amore, famiglia e tradizioni. La grotta è invece il cuore pulsante di Fratelli di carne. In realtà, la sua presenza nella storia è nata per puro caso: mi trovai a visitarla inizialmente per fare delle semplici fotografie, ma quel luogo mi ha subito colpito per la sua atmosfera suggestiva e per il senso di sacralità che emana. Ho avuto la fortuna di parlare con persone del posto che mi hanno raccontato le storie legate alla grotta: questi racconti mi hanno aperto un mondo e questo è stato il punto di partenza per sviluppare il senso profondo della storia.
5. Il ritorno di Michele al suo paese d’origine non è un semplice fare i conti col proprio passato; piuttosto pare significare recupero del proprio io frammentato, un ritorno nel grembo materno (da egli stesso violato) della propria terra. Cosa puoi spiegarci a proposito di questo?
Il ritorno di Michele al suo paese d’origine, anche se motivato dalla richiesta di Anna, rappresenta qualcosa che va oltre il semplice confronto con il passato. Credo che Michele portasse dentro di sé, anche inconsciamente, il desiderio di affrontare le sue ferite legate a quel luogo, ma che avesse cercato di ignorarlo per riuscire a sopravvivere. La grotta, in questo senso, assume un significato simbolico centrale: è un “ventre della terra”, uno spazio primordiale e materno dove si è costretti a confrontarsi con le proprie ombre. Entrarci significa accettare di attraversare un processo di trasformazione, un percorso intimo e doloroso per ritrovare se stessi e, in qualche modo, ricomporsi.
6. Vedendo Fratelli di carne, è parso di cogliere uno stretto legame tra la figura, angelica e passionale, di Anna e l’immaginario del paese d’origine: come ha connotato il rapporto dei protagonisti con la propria terra?
Il legame tra i protagonisti e la loro terra è stato reso principalmente attraverso dettagli visivi e linguistici. I costumi, ad esempio, sono stati pensati per sottolineare questa connessione: Luigi (interpretato da Corrado Taranto), fortemente legato alla tradizione, lavora nell’azienda di famiglia e il suo abbigliamento, sia da giovane che da anziano, ne rispecchia l’appartenenza al mondo rurale. La sorella Agnese, interpretata da Dora Romano, incarna il ruolo della tipica donna di famiglia, sempre impegnata in cucina e nelle faccende domestiche. Michele, invece, è un personaggio che appare fuori dal coro, estraneo non solo nei modi ma anche attraverso il linguaggio. Ho scelto Giovanni Battaglia per interpretare Michele proprio per questa ragione: essendo originario del Nord Italia, il suo distacco culturale e linguistico rispetto agli altri personaggi si riflette anche nel modo in cui parla, rendendo più autentico il senso di estraneità che lo contraddistingue.
7. A proposito dell’ambientazione, essa non sembra essere il mero sfondo su cui si intrecciano le vicende dei personaggi, ma, attraverso scorci e sfondo, il ‘paese’, così come è definito nel film, assume una fisionomia preponderante nello sviluppo psicologico dei personaggi, quasi un ulteriore personaggio tra i personaggi. In che modo hai definito l’ambientazione?
Ogni ambientazione non è mai casuale, ma pensata per rispecchiare e amplificare le emozioni e i conflitti dei personaggi e per costruire il senso profondo della storia. Il frantoio Fierro, ad esempio, è stato fondamentale non solo per le scene interne e per la scena della festa, ma anche per il significato che porta con sé: è stato il proprietario, Luigi, a raccontarmi tante storie legate a tradizioni, amori e famiglie emigrate, che hanno ispirato alcuni dettagli del racconto. Anche i vasti uliveti di Olevano sono un elemento cruciale nell’ambientazione di Fratelli di carne. L’ulivo, infatti, è da sempre simbolo di pace, ma nel contesto del film acquista un valore più profondo; con la sua longevità e solidità, rappresenta la speranza di una riconciliazione. La fontana, che attinge direttamente alla sorgente e scorre di continuo, è un simbolo di rinnovamento e purificazione; non a caso, l’acqua attraversa tutto il cortometraggio come un filo conduttore, assumendo un valore “battesimale”. Infine, il convento abbandonato, luogo in cui si consuma lo stupro, è stato scelto per la sua forza evocativa: un luogo isolato e decadente, perfetto per rappresentare la perdita di purezza e l’irruzione del male.
8. Il mondo rappresentato è un mondo ancora fondato sulle tradizioni: il coprire lo specchio nelle stanze in cui giacciono i defunti, la tarantella e il suono della tammorra, la presenza del vernacolo… In che modo ciò contribuisce a restituire il senso di un ritorno archetipico alle proprie radici recise?
Penso che le radici familiari siano difficili da spezzare, nonostante i tentativi di allontanarsi. L’atto di coprire gli specchi, ad esempio, non è solo un rito funerario, ma un atto di protezione e di separazione dal mondo dei vivi, un simbolo del passaggio ad un’altra dimensione: è anche quello che ha fatto Michele all’epoca dei fatti, fuggendo via dal suo paese. La tarantella e il suono della tammorra sono legati a riti ancestrali di esorcismo: la danza e la musica servono a provocare un’esplosione di energia vitale che permette ai personaggi di confrontarsi con le proprie ombre, proprio come accadeva nella grotta di San Michele Arcangelo in epoca medievale, dove venivano effettuati dei veri e propri esorcismi nei confronti delle persone che venivano ritenute affette dal “morso dalla tarantola”. Esprimersi in dialetto è un atto di rivendicazione della propria identità culturale e familiare, un ritorno a una lingua che è legata alla memoria storica; in questo caso, però, ha anche la funzione di aumentare il distacco che c’è tra Michele e il resto della famiglia.
9. Sono molteplici, come si diceva, gli spunti che Fratelli di carne può offrire: la ricorrenza del colore rosso e quella dell’acqua, l’immaginario legato alla tammorra e alla tarantella, le figure di Agnese e di suo nipote, la presenza e l’assenza del dialetto in Luigi e Michele… Soffermandoci sul titolo, esso sembra contenere molteplici allusioni riferite a Luigi e Michele: fratelli ‘carnali’, nati dal medesimo grembo; fratelli in quanto figli della stessa terra; fratelli in quanto presi dalla medesima passione per la stessa donna; Fratelli di carne, però pare recare una significanza più ampia che parla ad ogni individuo, ‘fratello di carne’ di se stesso. Cosa puoi dirci a proposito di questo titolo?
La “carne” simboleggia quella parte più vulnerabile e istintiva dell’essere umano che spesso guida le azioni, ma che può anche distruggere. La carne è sia un legame che una separazione: da un lato, Michele e Luigi sono fratelli appunto “carnali”, figli della stessa terra e dello stesso grembo materno; dall’altro, il legame tra loro è spezzato proprio dalla carne, dall’intensità di un desiderio che coinvolge Anna, la figura che diventa il catalizzatore del loro conflitto. Ma in senso più ampio, il concetto di “fratelli di carne” va oltre la relazione tra i due protagonisti, si riferisce a quel legame universale che ogni individuo ha con se stesso, con la propria carne, i propri desideri, le proprie contraddizioni e i propri conflitti interiori. È il confronto con la propria vulnerabilità e con le ombre che abitano in ciascuno di noi.
10. Hai incontrato ostacoli nella realizzazione di questo cortometraggio? Se sì, come li hai superati e cosa hai imparato da questa e dalle esperienze lavorative precedenti?
La realizzazione di Fratelli di carne è stata una sfida, soprattutto a causa di alcune difficoltà logistiche e del fatto che fosse la mia prima esperienza da produttrice. Un esempio concreto è stato il trasporto delle attrezzature fino alla grotta di San Michele Arcangelo, che presenta un dislivello di quasi 900 metri. Percorrere quel tratto a piedi, portando a mano l’attrezzatura necessaria, è stato estremamente impegnativo. Inoltre, durante la discesa siamo stati sorpresi da una pioggia improvvisa, il che ha complicato ulteriormente le cose.
Essendo la mia prima esperienza come produttrice, ho dovuto affrontare diverse difficoltà organizzative, dalla gestione della troupe al coordinamento delle risorse, passando per il rispetto del budget. Tuttavia, ho avuto la fortuna di collaborare con persone competenti e disponibili, che mi hanno supportata e permesso di portare a termine il progetto con successo. Quest’ esperienza mi ha insegnato moltissimo. Ho imparato a comprendere meglio gli aspetti finanziari della produzione, a pianificare con maggiore precisione e, soprattutto, a riconoscere gli errori da evitare in futuro. Ogni nuova esperienza è un’occasione per crescere: oggi so gestire meglio il mio lavoro, sia dal punto di vista tecnico che organizzativo, e sono consapevole dell’importanza di costruire un team affiatato e competente.
11. Questo è il tuo secondo cortometraggio: sei contenta dei risultati ottenuti finora? Cos’hai in programma per il futuro?
Sono soddisfatta dei risultati ottenuti con Fratelli di carne. Rispetto al mio primo cortometraggio, Mami Wata, sento di essere cresciuta sia dal punto di vista tecnico che narrativo, anche grazie alle persone con cui lavoro, come i miei colleghi e la distribuzione Son of a Pitch. Nel frattempo, sento di essere maturata ulteriormente. Di recente ho realizzato il documentario Macbeth – Cuore nero, che segue un progetto teatrale all’interno del carcere di Arienzo. È stata un’esperienza intensa e profondamente umana lavorare con i detenuti, impegnati a mettere in scena il Macbeth di Shakespeare. Per il futuro, mi sto preparando al mio terzo cortometraggio, Solo il mare, una storia che intreccia amore e guerra, e che rappresenta una nuova sfida per me. Non vedo l’ora di mettermi al lavoro su questo progetto, che credo possa essere un altro importante passo avanti nella mia carriera.
di Maria Grazia Rullo e Salvatore Di Marzo
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