Il Castello Errante di Howl (ハウルの動く城 Hauru no ugoku shiro) è un film del 2004 targato Studio Ghibli, il celebre studio cinematografico di animazione fondato da Hayao Miyazaki, Isao Takahata, Toshio Suzuki e Yasuyoshi Tokuma. È proprio alla direzione di Hayao Miyazaki che dobbiamo questo gioiellino. Non contento dell’Oscar con La città incantata (千と千尋の神隠し) nel 2001, riesce a vincere anche il Leone d’Oro alla carriera. Il film, tratto dall’omonimo romanzo fantasy della scrittrice australiana Diana Wynne Jones, segue le vicende di Sophie, un’eroina atipica – non la prima, né l’ultima nella produzione del regista – in uno scenario che si rivede nell’Europa della Belle Époque. A scombussolare la routine della ragazza è la comparsa di un personaggio eccentrico, Howl e soprattutto della magia. Il giusto connubio tra l’amara realtà della guerra e un mondo popolato da streghe, incantesimi e spiriti, restituiscono la declinazione peculiare che ha il genere di fantasia nel repertorio creativo del Giappone contemporaneo. Una nozione che lo stesso Miyazaki ha contribuito a formare.
Il Castello Errante di Howl è un film che fin troppo spesso passa al vaglio semplificativo di chi tende ad elevare l’aspetto romantico a tutti i costi o a chi si ferma ad una pomposa apparenza dai capelli color platino. L’amore è un sentimento nobile, il più antico e cantato di tutti, ma le vette di liricismo raggiunte da questa pellicola trovano la loro raison d’être nell’insieme di sensazioni che afferiscono all’accettazione di sé, al coraggio eroico di chi si oppone all’amor fati, un vero e proprio inno alla vitalità. Nel tentativo di scandagliare pezzo dopo pezzo tale veduta, ne forniamo una lettura alternativa, cercando di trovare gli ulteriori motivi dietro l’ampio consenso di pubblico e critica.
Il Castello Errante di Howl non è, quindi, solo una storia d’amore. Si parla di colori, di spazi sfolgoranti e di figure oscure, melmose e mutanti, per questo, tutte uguali, senza volto, profondamente terrificanti, perché il male, nella rappresentazione plastica conformemente a quella psicologica, se non ha forma identificabile, fa più paura. Si parla di stregoneria, quel guizzo chimerico che Hayao Miyazaki accoglie dalla tradizione del suo Paese e che sa unire a dettagli laceranti, come quello del conflitto mondiale. Esso distrugge e dipinge di un rosso-sangue un paesaggio dapprima colorato di un acrilico brillante, che si sposa perfettamente con i valzer composti da Joe Hisaishi. Il Castello Errante di Howl è il realismo di una casa da rassettare, di una famiglia che cerca di tenere insieme i mattoni buttati giù da idrovolanti in atterraggio in mezzo al logorio del sudicio, di un ambiente lasciato a sé stesso. Il cuore di Howl non esiste più, la sua anima è altrove, ma forse più vicina di quel che immaginiamo. È calda, irradia di luce l’ambiente, ma tinge di un profondo blu il suo, di corpo. Nel caso dello stregone, l’anima si è liberata dalla prigione dell’involucro in cui dovrebbe dimorare, ma a che prezzo?
Il castello principesco, gotico, con le sue guglie e drappeggi, lascia spazio ad un congegno che si alimenta attraverso il demone Calcifer. Una faccia di animale e un corpo in movimento, l’errante del titolo, che simula la forma di un cuore umano, con le lunghe canne a rassomigliare a delle aorte. La sua superficie di metallo è composta da pezzi raccolti da lande desolate, ma c’è una porta di ingresso, quella che si apre davanti alla nostra protagonista. Forse, quell’appendice che si muove, nel momento in cui incontra l’ormai nonna Sophie, chiede di essere salvata.
I travestimenti e gli incantesimi che il caro piccolo Micheal dispensa ad una popolazione che usa la magia come strumento, ma che un po’ ancora la teme, rimane in mano ai pochi prescelti che mostrano di poterla maneggiare. Ma anche dietro questo potere, c’è lo zampino di marcio. La sete, la corruzione, la cupidigia per il denaro scintillante trovano forma nelle mire espansionistiche di popolazioni in continua lotta, in cui il salvatore pacifista è ridotto ad uno spaventapasseri. La magia, ne Il Castello Errante di Howl, si fa negli artefici, ma non nella retorica dei sentimenti. Il conflitto interiore si esprime attraverso corpi pulsanti, il corpo è il mezzo preferenziale di espressione di un’essenza che ringiovanisce e spezza momentaneamente le catene della maledizione imposta dalla Strega delle Lande, un’entità, che di spaventoso ha solo il nome: quando viene spogliata del suo potere, si prosciuga dietro il peso del tempo che avanza.
Abbandoniamo il preconcetto di Howl come antieroe, bello e dannato. Il protagonista de Il Castello Errante di Howl non è un principe solo perché vive in un castello. L’inadeguatezza, l’insicurezza e la sua vulnerabilità sono salvate da una donna che entra, senza permesso alcuno, in uno spazio lasciato a lacerarsi, ma non parliamo di una Bestia disneyana: il Male e il Bene sono entità indiscernibili. Si è più felici a dare che a ricevere. Questo, anche una creatura come Howl, lo comprende. L’egoismo del vuoto incolmabile viene soppiantato dalla scoperta di una vera ragione di vita, la salvaguardia dell’altro sopra la propria esistenza. Essa si riempie progressivamente, inizia ad acquisire peso, ma, nello slancio eroico, finisce per attentare alla sua stessa autosufficienza. Qui entra in gioco Sophie, non più vittima della passività con cui ha vissuto i primi vent’anni di una vita, una vita da cappellaia che non ha scelto e figlia di una famiglia troppo appariscente con cui non condivide nulla. Alla primavera del suo cuore corrisponde il fiorire degli anni e ritrova la sua vera immagine, sicuramente diversa rispetto a quella di partenza. Ha riacquistato la sua gioventù, ma la caustica treccia castana ha lasciato spazio a spettinati capelli “dipinti dal color del cielo”: noi abbiamo sempre visto il modo in cui Sophie si vedeva, senza bisogno di specchi. Finalmente, forma e sostanza possono ricongiungersi, in entrambi i protagonisti.
Fonte immagine in evidenza dell’articolo Il Castello Errante di Howl: una lettura al di là delle apparenze: Wikipedia