Maradonapoli è o cunto ‘e Napule su Netflix

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Su Netflix è arrivato Maradonapoli. Leggi qui la nostra recensione!

Il rapporto tra cinema e sport, forse le due più grandi manifestazione della cultura popolare del Novecento, è sempre stato complesso. D’altronde, come potrebbe essere altrimenti? A farla da padrone, c’è il limite intrinseco del tempo, della durata di un prodotto audiovisivo, che, limitata per piacere ad un pubblico quanto più vasto possibile, si trasforma in una semplice celebrazione di un singolo momento o torneo nella carriera di uno sportivo. Negli ultimi tempi però il documentario sportivo, genere cinematografico spesso bistrattato, ha trovato nuova linfa vitale, grazie ad interessanti esperimenti visivi estremamente lontani l’uno dall’altro. 

Si pensi a The Last Dance, discusso panegirico che comunque ha portato le vicende di Michael Jordan e compagni nelle case di milioni di persone, o ai tecnicismi esasperati di Faraut e il suo L’impero della perfezione. Entrambi prodotti dal successo e dalla riuscita, per motivi diversi, evidente, ma che comunque lasciavano ambedue volutamente in disparte il racconto del dietro delle quinte, di chi soffre e gioisce alle gesta del proprio campione preferito.

Maradonapoli, recentemente distribuito su Netflix è, da questo punto di vista, un prodotto estremamente intrigante perché riesce a dire qualcosa di nuovo sul giocatore di calcio di cui si è storicamente più parlato, in Italia e non solo, e del suo complesso rapporto di odi et amo con la città che lo ha eletto a proprio figlio prediletto.

Diego Armando Maradona è infatti l’indiscussa figura di riferimento di questo splendido documentario firmato da Alessio Maria Federici. Pur recitando una parte per lui completamente nuova e che a prima non si assocerebbe al suo carisma leggendario, in campo e fuori: un ruolo di supporto, da attore non protagonista, che infatti non compare mai direttamente se non in qualche intervista di repertorio, firmata dall’altrettanto leggendario Gianni Minà. A parlare, in Maradonapoli, sono infatti le persone, la gente che lo ha accolto e lo ha amato fino alla follia, arrivando a chiamare i propri figli Diego o tatuandosi il suo viso sul proprio corpo. In Maradonapoli ci sono commercianti, artigiani, impiegati, professori universitari, antiquari, casalinghe, trasportatori, parroci, pizzaioli, ristoratori.

L’effetto placebo di Diego

Tutti accomunati da un’unica, grande passione, pian piano diventata alla strenua di una fede religiosa e che ha segnato in maniera indelebile la loro esistenza, quella per Diego Armando Maradona. Non importa avere vissuto o meno quegli anni, dal 1984 al 1991, segnati dal successo ma anche una personale discesa agli inferi, lenta ma vertiginosa. Maradona è, nel bene e nel male, che piaccia o meno, una presenza che aleggia ancora nelle strade di Napoli, dai vicoli del centro storico ai quartieri più benestanti, e Maradonapoli da questo punto di vista restituisce bene l’immagine di un uomo che in realtà non se è mai andato per davvero dalla città.

Ogni napoletano infatti, in cuor suo, conserva un’immagine, un ricordo di Diego e dei suoi anni napoletani. Un discorso che prescinde dall’età, perché anche i giovanissimi, che in quel periodo non c’erano, hanno ben presente la presenza di Maradona nel gotha delle figure di spicco della cultura partenopea. E così c’è chi ha rifiutato un prestigioso incarico in America per seguire le vicende del fuoriclasse argentino. Chi ha persino chiamato proprio figlio Diego Armando Maradona, in aggiunta al cognome paterno. Chi, per consolarsi dalle amarezza che riserva la vita di tutti, “s mett ‘o dischett e’ Maradona”, per vedere e rivedere le sue irripetibili gesta tecniche.

L’evanescenza di Maradona a Napoli, per citare uno dei caratteri più rimarcati del Pibe de Oro, dalla gente intervistata, è sottolineata addirittura dalla presenza di un fantomatico mercatino di Diego. Un vero e proprio business clandestino e dalla fantasia illimitata, grazie al quale la faccia del fuoriclasse argentino è apparsa su qualsiasi prodotto possibile ed immaginabile, e che ancora persiste e tira al giorno d’oggi nelle vie del centro storico. Dalle magliette ai ditalini, passando per i calzini agli oggetti d’arredo, l’immagine di questo guerrilero heroico locale apparve ovunque, a Napoli e dintorni. Una piccola fortuna su cui comunque Diego non ha mai inteso lucrare, perché la sua presenza a Napoli non avrebbe mai e poi significato “arricchire ancora di più i miliardari della città”.

Maradonapoli è ” ‘o cunto re cunti “

Maradonapoli scorre come si sfoglia un album di famiglia, e le foto in questo caso sono rappresentati dal piccolo racconto narrato che ogni persona. “ ‘O cunto”, come si direbbe in napoletano, e se il Vangelo è “ ‘o cunto re cunti”, gli anni di Diego a Napoli rivestono pari importanza confessionale. C’è del realismo magico quando il montaggio di Alessio Maria Federici aumenta sempre di più la propria velocità, al racconto di quell’indimenticabile 5 luglio 1984. Il primo, straordinario, giorno napoletano del Pibe de Oro. C’è chi dice che allo stadio San Paolo ci fossero sessantamila, chi settantamila, chi addirittura centomila persone. Prezzo simbolico, per entrare, di mille lire ed un’unica grande certezza, mai scalfita dal tempo che passa e dai ricordi sbiaditi: Napoli, quel giorno, era “sott e ’ncopp”. Una città già in festa, pronta ad accogliere il suo nuovo beniamino e ancora ignara che quel giorno non fu altro che il preludio ai due scudetti del 1987 e del 1990. Gli unici, ancora oggi, nel palmares del club partenopeo.

Sono dunque anni interessanti per il genere del documentario sportivo. Ne è passata infatti di acqua sotto i ponti da quando Sandro Ciotti, con il suo fare prosaico appartenente ad un’altra epoca e ad un’altra Italia, nel 1976 realizzava lo storico ritratto di Johan Cruyff con il bellissimo Il profeta del goal. Maradonapoli, da questo punto di vista, è però diverso perché lo sport è solo un pretesto e difatti i suoi aspetti tecnici, con cui si manifesta esteriormente, rimangono sempre in secondo piano. A farla da padrone è la gente, in particolare un popolo, quello partenopeo, aggrappatosi con forza ad un uomo  venuto dall’altra parte del mondo ma che a Napoli trovò comunque, tra mille controversie, una casa.

Napoli è infatti la vera protagonista di questo prodotto, e guardando Maradonapoli è possibile infatti osservare i pregi e i difetti di questa città così particolare e che tanto fatica a conoscersi ed amarsi appieno. C’è l’arte dell’arrangiare, la celeberrima e tanto decantata “passionalità” partenopea, ci sono le ansie e le paure della gente che all’epoca faticava a riprendersi dal terribile terremoto irpino del 1980. Lo sport, è risaputo, è l’epica dei nostri nostri tempi e a Napoli quei novanta minuti settimanali in cui gioca la squadra locale sono letteralmente un tempo sospeso, che riesce a spazzare via tutte le preoccupazione della quotidianità. Maradona da questo punto di vista è stato a sua volta un’anestetico, il cui sbarco ha suscitato una sorta di effetto placebo durato quasi un decennio di spensieratezza e goliardia.

Maradona, con qualche calcio ad un pallone, ha risvegliato l’inconscio collettivo di questa città, nata centinaia di anni prima di Cristo e che storicamente ha sempre avuto bisogno di un condottiero a cui affidare i propri sentimenti. Se Masaniello “si vendette al re dopo due giorni”, Diego per i napoletani è una figura ancora più mitologica, l’unico nella storia in grado di spodestare le grandi potenze industriali del nord. Anni ed anni di soprusi, presunti o meno, svaniti nel tempo di una punizione,  di un un tunnel, e non ci fu Agnelli o Berlusconi in grado di fermare l’impatto devastante del campione argentino.

 

Fonte dell’immagine: https://www.facebook.com/MaradonapoliIlFilm/ (immagine di copertina Facebook della pagina ufficiale del Film)

A proposito di Matteo Pelliccia

Cinefilo, musicofilo, mendicante di bellezza, venero Roger Federer come esperienza religiosa.

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