Il viaggio nel cinema del reale, promosso da AstraDoc, ci ha condotti non lontano dalla sede del cinema stesso, nel cuore della città più cosmopolita e enigmatica di tutte (forse): la nostra Napoli. “Porta Capuana” è infatti il titolo del film presentato il 21 febbraio scorso, del regista Marcello Sannino. Il curatore del “TffDoc” al Torino Film Festival, Davide Oberto, accompagnato dal regista stesso, hanno introdotto la visione del film. Quest’ultima è stata preceduta dalla proiezione dei cortometraggi prodotti nell’ambito della terza edizione dell’Atelier di Cinema del Reale Filmap di Arci Movie Napoli. Il primo corto “Racconti dal Palavesuvio” di Luca Ciriello, indaga la realtà circostante alla struttura monumentale ma purtroppo abbandonata e degradata del “Palavesuvio” di Ponticelli, attraverso i racconti folkloristici degli abitanti del posto. Il secondo corto “Il vicino” di Alessandro Freschi, ci mostra la vita solitaria di un eroe popolare, Giovanni Nappi, che attraverso il canto cerca di donare gratis un sorriso a tutti coloro che lo circondano.
“Porta capuana” dentro il film di Marcello Sannino
Il regista Marcello Sannino dice di aver assunto le vesti dello scultore in questo film documentario su Napoli, e di aver, attraverso le riprese, cercato di trarre fuori dal marmo una forma, o più forme, di una Napoli eclettica e in continuo mutamento. Porta Capuana diviene una sorta di varco spazio temporale, osservata in tutti i suoi angoli e in vari momenti della giornata, soglia di un mondo quasi irreale che è il magma fluido delle personalità che abitano la città. Punto focale per l’autore sono infatti le persone, nessun individuo sfugge all’occhio della macchina da presa di Marcello Sannino, sembra quasi veder scorrere sullo schermo un esemplare tipico per ogni personalità umana, nessun colore, stazza o età manca. Ciò su cui il regista pone la sua attenzione è il cosiddetto “paesaggio dei volti”, nonché una caratteristica che li attraversa tutti, lo spaesamento. Tutti sono di passaggio, caratteristica tipica del varco, eppure ognuno sembra essere lì e appartenere a quel luogo, esattamente come le pietre delle colonne della porta protagonista. Allo stesso tempo però tutti sembrano inadeguati. La porta è infatti principalmente frontiera, aperta oltre ogni politica restrizionistica. E Napoli diviene un contenitore eterogeneo di personalità provenienti letteralmente da ogni parte dell’emisfero. Ma lo spaesamento è sempre presente, la porta è il luogo dove si viene e si va, non dove si sosta. Nessuno è fermo, tutti continuano ad andare e venire. Il contrasto tra la monumentale fissità della porta e il fluire incessante di persone è evidente. Tutto cambia, eppure qualcosa resta impigliato in quelle mura, come se quel varco avesse la peculiarità di trattenere, e il passare da lì implicasse l’immutabilità; scene in bianco e nero, di decenni passati si succedono a scene moderne e attuali: ne è un esempio il doppio matrimonio, presente e passato, dove a cambiare sono solo i personaggi, forse le mode, non gli atteggiamenti, né i rituali. Inevitabilmente, vecchio e nuovo si fondono sulla soglia di Porta Capuana. Così come ci mostrano “Gli Arditi”, associazione che ha la sua sede tra quelle mura, dai tempi della seconda guerra mondiale, con tutto il loro sacrario di memoria custodita nelle ossa come nelle pareti. Quelle pareti che sono custodi non solo dei caduti in guerra, bensì dei volti che sono passati da lì, come migliaia di occhi intrappolati nelle porosità delle mura. E al vecchio, a ciò che è nato e vissuto presso quel luogo, si mescola il nuovo dei volti spaesati di migranti e rifugiati, vecchi, giovani e giovanissimi. Il loro arrivo si amalgama con la necessità di persistere di negozi antichi, che cercano di sfuggire alla massiccia globalizzazione, simboli di un’attiva e silenziosa resistenza: una “Genepesca”, il “Non si apre senza musica” di un negoziante coraggioso. Nuovi bisogni contro nuovi arrivati.
L’occhio della macchina da presa del Sannino ci fa vivere l’attesa che contrasta con la necessità di andare, e ancora con la voglia di restare, di non cambiare nulla, mentre tutto intorno muta. Non mancano di certo i rituali e le cerimonie tipiche di Napoli; una messa celebrata durante la domenica delle Palme, i canti intonati dai fedeli, i segni della croce, la benedizione degli animali, si incrociano con riti e canti di popoli africani, che visti da vicino si somigliano, sono complementari; a cambiare sono forse solo le parole, la lingua. Così come il pallone, onnipresente in scene che riguardano piccoli e grandi, e che unisce riportando in patria uomini lontani chilometri.
La messa a fuoco, cruda e insistente, parte da un caos brulicante ed eterogeneo di vite che si muovono vorticosamente, ma che da vicino sono ferme, come appartenenti ad un’epoca che è presente, passato e futuro insieme. A Porta Capuana il tempo si è fermato, lì dove sembra correre più veloce. Una sorta di portale che conduce a una realtà dove tutto è diverso, ma al contempo parte di un unicum. Eterogeneità e omogeneità sono in continua lotta tra loro all’interno del film di Marcello Sannino. Sotto l’arco di Porta Capuana, e attraverso l’occhio del regista, tutto sembra procedere come trascinato da un flusso travolgente e unitario, all’interno del quale la tradizione si unisce con la modernità, dove distinzioni di razze e colori non esistono, e solo un occhio attento e indagatore riesce a distinguere le singole identità che spiccano all’interno del continuo fluire, di un andare che è restare.
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Fonte immagine: wikipedia