Shaft: il film remake con Samuel Jackson | Recensione

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Shaft (film): la nostra recensione

Tra il 1971 e il 2019 sono stati girati cinque film — più una serie tv — dedicati al detective privato John Shaft. In tutti e cinque appare l’interprete originale Richard Roundtree ma negli ultimi due il protagonista è Samuel L. Jackson. La trilogia che va dal 1971 al 1973 rappresenta il detective Shaft originale, mentre i due capitoli successivi (2000 e 2019) sono ascrivibili alla categoria dei remake

In questa recensione parleremo del remake di Shaft del 2019. La trama si apre nel 1989, quando John Shaft II (Samuel L. Jackson) e la moglie Maya (Regina Hall) vengono presi di mira dalla mala newyorkese. Per proteggere la propria famiglia, il poliziotto non ha più contatti diretti né con Maya né con il figlio John Jr. soprannominato JJ. Passano gli anni e JJ (Jessie Usher), dopo essersi fatto le ossa al MIT, lavora per l’FBI come analista ed esperto di sicurezza informatica. Nel momento in cui deciderà di indagare per conto proprio, senza l’autorizzazione dei suoi superiori, sulla misteriosa morte di un suo amico d’infanzia, ritorna in scena il padre, l’unico che divenuto investigatore privato ha dimestichezza con quel mondo e può essergli d’aiuto. John è felice di avere finalmente un rapporto umano con JJ, ma potrebbe pentirsene quando rischia di mettere in pericolo per l’ennesima volta le vite dei suoi familiari. 

Questa pellicola si veste di una grande ironia fin da subito, quando all’inizio del film, sotto il titolo appare la classica data scritta in cifre romane, ma non è 2019, bensì 1971, l’anno del primo dei tre episodi con Richard Roundtree. Shaft è un omaggio alla blaxploitation dell’epoca ma anche una critica della stessa, il più delle volte in chiave ironica. Grazie alla scrittura di Kenya Barris il film prende una strada molto interessante, che viene il più delle volte incasinata dalla regia di Tim Story, che rende questo film qualcosa a metà tra una riflessione sul politicamente corretto di oggi ed un B-movie.

Shaft nella sua confusione stilistica però ha dei momenti interessanti grazie all’immenso talento istrionico di Samuel Jackson: stiamo parlando sicuramente di una pellicola che va al nocciolo della questione senza troppi fronzoli. Questo lungometraggio schiera due ideali, quello da giovane borghese sensibile e proiettato nel futuro di JJ, e quello di Shaft II che è un conservatore, che crede che il suo modo di fare sia l’unico possibile, l’unico che conosce e l’unico che gli ha permesso di sopravvivere per tutti quegli anni. Il film non prende posizione al riguardo, anzi lascia che i due mondi si scontrino all’interno della pellicola attraverso il rapporto da ritrovare tra un padre ed un figlio.  

Il film alla lunga diventa piacevole, la sintonia tra gli attori lo rende un buon prodotto, Tim Story rilancia nel nuovo millennio il mito di Shaft, nonostante qualche difetto di troppo, come il mancato approfondimento psicologico dei personaggi in un’America sempre più divisa dai conflitti sociali e dal razzismo. Nonostante Shaft sia un prodotto che raggiunge la sufficienza, questa pellicola perde una grande occasione, e cioè quella di rifare la storia del cinema dando un nuovo modello di riferimento alle generazioni di afroamericani e non, ma rappresenta comunque l’opportunità di scoprire il mito di Richard Roundtree, della saga degli anni ’70 e l’importanza della blaxploitation in quel particolare periodo storico. 

Fonte immagine in evidenza: Wikipedia

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