La storia di Antonio Ligabue narrata nel film Volevo Nascondermi.
Il rimpianto del suo spirito, che tanto seppe creare attraverso la solitudine e il dolore, è rimasto in quelli che compresero come sino all’ultimo giorno della sua vita egli desiderasse soltanto libertà e amore.
-Epitafio sulla tomba di Antonio Ligabue a Gualtieri
Zurigo, 1899. Da Elisabetta Costa e Bonfiglio Laccabue nasce Antonio (noto ai più come Ligabue). Rimasto orfano della madre, morte di cui considerava responsabile il padre, viene affidato alla famiglia Goebel. Eredita dall’infanzia rachitismo, uno sviluppo fisico bloccato e una certa asocialità che lo porta a fuggire i suoi coetanei e a preferire la vicinanza con gli animali. Antonio, che diventerà un pittore apprezzatissimo, trovava nel suo disegno una cura alle sue crisi nervose, uno strumento con cui superare l’incomunicabilità che lo rendeva un reietto della società. L’incontro con la pittura avviene nel 1928, grazie al fondatore della Scuola Romana, Marino Mazzacurati, che gli insegna ad utilizzare i colori a olio. Rinchiuso in un manicomio per atti di autolesionismo, non interrompe mai la sua attività di pittore, suscitando un’attenzione sempre maggiore di critici, giornalisti e critici d’arte.
Giorgio Diritti, con Volevo Nascondermi, decide di riportare sul grande schermo la storia del geniale Ligabue (inevitabile pensare allo sceneggiato RAI del 1977 con il grande Flavio Bucci), affidandone l’interpretazione a un gigantesco Elio Germano, premiato alla Berlinale 2020 con l’orso d’argento come miglior attore.
Partendo dai primi anni di vita, Diritti racconta la difficile infanzia, il disagio psichico, la profonda solitudine, elementi costitutivi della personalità e dell’arte di Ligabue, il Van Gogh italiano. Bravissimo Germano nel riprodurre la sua lingua incomprensibile, i suoi gesti nevrotici e l’andamento sgraziato che lo portava spesso sulle rive del Po. Forte il contrasto tra il mondo esterno dominato dal fascismo e l’interiorità del pittore, che disegnava paesaggi nuovi nella sua mente per poi riportarli sulle sue tele. Tigri, gorilla, serpenti, aquile, una giungla immaginata con allucinata fantasia, dove spesso le creature lottano per la sopravvivenza, secondo la concezione che Ligabue aveva della vita: una lotta incessante intervallata da sparuti frammenti di serenità.
La pittura gli permette di inserirsi nella stessa società che lo ghettizzava, in cui inclusione ed esclusione erano facce della stessa medaglia e gli permette di comprare una moto Guzzi rossa, con cui scorrazzava inseguendo la tanta amata solitudine del bosco e dei viottoli di campagna, con cui inseguiva quella libertà di cui sarà privato negli ultimi anni della sua vita, trascorsi in un ospedale psichiatrico in seguito ad una emiparesi. Finisce così la vita di un uomo alla ricerca di un senso, che aveva trovato nel disegno e nell’esplosione di forme e colori un rifugio dalle sofferenze dell’esistenza.
Finisce così la vita di uno dei pittori più enigmatici e affascinanti del Novecento, Antonio Ligabue.