Le black companies (ブラック会社, burakku gaisha) sono una delle numerose malattie sociali fuoriuscite dal Vaso di Pandora del Sol Levante, con la capillarizzazione delle informazioni in rete. Con il potere virtualmente illimitato di internet dalla nostra parte, quelli che un tempo erano segreti gelosamente custoditi dalle alte cariche governative di un paese sono ormai di dominio pubblico.
Non sono lontani i tempi in cui il Giappone veniva dipinto come l’immacolato paese delle meraviglie estremo orientale e, sebbene continui ad essere una delle mete più eccitanti da visitare da turista, grazie alla sua cultura affascinante e alle spettacolari bellezze naturali, chi ci vive potrebbe doversi scontrare con una realtà tutt’altro che rosea.
Le black companies sono un importante indicatore della bassa qualità di sostenibilità lavorativa del paese e, in questo articolo, scopriremo perché sono nate e come mai sono ancora presenti in numero così elevato, nonostante siano state messe sotto pesante scrutinio dall’opinione pubblica internazionale nell’ultimo decennio.
Le origini del problema
Le radici dell’attuale (e disastrosa) situazione demografica risalgono al periodo dell’industrializzazione, che consolidò un’etica del lavoro fortemente stacanovista. Il periodo del dopoguerra fu caratterizzato da un massiccio flusso migratorio, dalle zone rurali verso i grandi centri urbani, favorendo un cambiamento culturale che attribuiva maggiore valore all’educazione e alla carriera individuale. Quest’evoluzione sociale ha contribuito, a partire dal 1975, alla comparsa dei nyūshinguru ニューシングル (“nuovi single”), persone che scelgono consapevolmente di non sposarsi.
Negli ultimi anni, il termine burakku gaisha, che designa le “aziende nere”, ha acquisito sempre più rilevanza.
Secondo Iwata (1977), uno dei fattori principali che favorisce la proliferazione di questo fenomeno è la natura altamente competitiva del sistema educativo giapponese.
Il forte senso di incertezza generato dalla malsana competizione crea un’urgenza per l’accesso a un impiego stabile, spingendo anche i laureati delle migliori università del Paese a entrare in aziende che adottano politiche amorali e non rispettano i diritti fondamentali dei dipendenti.
Il dibattito sulle black companies ha acquisito una maggiore risonanza pubblica nel 2015, dopo il suicidio della ventiquattrenne Takahashi Matsuri, impiegata della Dentsu Inc. La giovane ragazza aveva accumulato oltre cento ore di straordinari a soli nove mesi dall’assunzione, e le difficoltà legate a tale sovraccarico erano state condivise tramite messaggi alla madre e post sui social media. Tutto ciò ha contribuito a classificare l’episodio come un caso di karōjisatsu 過労自殺 (“suicidio da eccesso di lavoro”).
Tristemente, quello di Takahashi non è stato un caso isolato, dato che, già nel 1991, un dipendente della Dentsu si tolse la vita per motivi analoghi. Inoltre, nell’agosto del 2015 (5 mesi prima del suicidio della giovanissima impiegata) la compagnia era già stata ammonita per aver superato il limite di ore di lavoro straordinario concesso dalla legge.
Morioka Koji, nel suo articolo “Work Till You Drop” del 2004 ha scritto che: Il karōshi è un problema legato alla morte da eccesso di lavoro che prende la forma di scompensi cerebrali e cardiovascolari portati dall’esecuzione di ore di lavoro straordinarie in una società capitalistica altamente sviluppata.
Questo concetto socio-medico giapponese è entrato nel lessico globale ormai da decenni, radicato nelle pratiche storiche di sfruttamento dei lavoratori. Emerse per la prima volta nel 1969 e, nel 1982, il libro Karōshi di Uehata Tetsunojo portò il concetto all’attenzione del grande pubblico.
Col tempo, il rigoroso riserbo che avvolgeva quest’oscuro aspetto della società giapponese è stato infranto grazie agli sforzi di associazioni, studiosi e artisti, che hanno contribuito a rivelare la tragica realtà sottostante. Un altro caso emblematico è quello di Hiraoka Satoru, morto nel 1988 dopo aver accumulato ben 3365 ore di straordinari in due anni.
Conclusioni
Nonostante l’atrocità di simili episodi, simili ingiustizie continuano a persistere, riflettendo un gravissimo problema strutturale del mercato del lavoro dell’arcipelago. Le categorie a rischio non sono solo i colletti bianchi e i colletti blu, ma anche accademici, scrittori e creativi.
Fonte immagine: Depositphotos