Anna Giurickovic Dato è al suo secondo romanzo con Il grande me, rigorosamente edito Fazi Editore. Con la stessa casa editrice, l’autrice aveva già conquistato un posto come finalista al Premio Brancati 2018 con il romanzo esordio “La Figlia femmina” definito “disturbante”.
Nulla da smentire, ma tutto anzi da riconfermare con questa nuova opera: un talento, la penna di Anna Giurickovic Dato, che si innesta ogni volta per portarci con sé nel turbinio di una scrittura matura e intensa, realista e perciò spietata.
Il grande me è la declinazione di un rapporto, quello padre-figlia, in un periodo difficile per Simone, padre di Carla, la protagonista di questo romanzo.
Carla è tornata da Roma, dove è nata e vive, per recarsi a Milano ed assistere suo padre, malato di cancro, che ha adesso bisogno di cure e attenzioni. La vita diventa per lei la contemplazione, inerme, di un corpo caro consumato da un male inarrestabile. Il tempo si dilata tra le quattro mura di una casa, quella di Simone, che diventa una gabbia asfissiante, in cui si consuma il dolore, insieme al corpo di un padre e alle energie dei suoi figli – oltre a Carla, c’è sua sorella Laura e Mario, il fratello. Qui si dipanano silenziose e assillanti le paure, insieme alle infinite domande che accrescono come ombre opprimenti.
Le uniche “evasioni” di Carla sono le visite in ospedale o qualche serata in compagnia di amici o di uomini dai quali le piace sentirsi desiderata: Il grande me è anche il racconto di una donna che spesso si cerca e si osserva dentro uno specchio e che nel dolore non smette mai, seppur non riuscendoci sempre, di amarsi.
È inoltre l’abilità della penna di Anna Giurickovic Dato, che si eclissa dietro e dentro il personaggio di Carla, incarnandosi nelle sue emozioni e stati d’animo, a farci pensare che la protagonista de Il grande me possa essere l’alter ego della scrittrice stessa poiché sparisce, nella naturalezza della scrittura, la barriera tra lettore e protagonista.
Il grande me di Anna Giurickovic Dato: fare di un padre un Dio e poi riscoprirlo bambino
«Questo padre io lo abbandono, perché l’ho amato più di ogni altro, più di me stessa, perché ne ho fatto un Dio e l’unico mio Credo e mi sono compresa grazie alla sua comprensione, e mi sono riconosciuta quando lui mi ha spiegato com’ero e come sarei diventata, e mai, mai dico, ho pensato che mio padre non fosse in mio possesso: fino a ora.»
L’immagine cristallizzata di un papà grande, enorme, consapevole sempre, invincibile è minacciata dalla malattia e crolla, come un castello minato alle fondamenta. Tutto d’un tratto un padre non è più un padre, non è più il papà eroico che Carla aveva conservato per sé, smette di essere un adulto e ritorna lentamente bambino: «Non è il mestiere dei figli essere padri.»
È semplice quanto complessa la declinazione del rapporto tra Carla e Simone descritta da Anna Giurickovic Dato: smascherare tutta la fragilità di un genitore, riscoprirlo umano e non più invincibile. Comprenderlo finalmente, assolvendolo da tutte le sue colpe, poiché nessuno ci insegna ad essere padri o madri, poiché anche loro sono stati ingenui, sempre fanciulli. Sparisce così anche il rancore. Ora che la malattia ha assorbito ogni cosa, non c’è spazio per i litigi, né per rinfacciarsi i torti subiti. Tutto, pur di far morire in pace suo padre. «Eppure io ti amo tanto» ripete sempre Carla dentro di sé. Tutto si riduce a un sacrificio che, insieme a Carla, fanno anche i suoi fratelli. L’apparenza vacua dissimula le tensioni, sempre sotterranee, che animano i personaggi: tutto il non detto si accumula per liberarsi nei monologhi del romanzo.
I riflettori sono puntati su Simone, è per lui che tutti si immolano: i ruoli si sono ormai invertiti. Mentre il cancro lo porta con sé, giù nell’oblio, offuscando la mente, gettando ogni ricordo in pasto alla confusione, Simone finisce per parlare sempre e solo di sé: non un narcisista ma un uomo che ripercorre la sua vita a ritroso in cerca dei suoi successi per cullarsi e consolarsi dei suoi fallimenti.
Ed è per questo che nel romanzo di Anna Giurickovic Dato non capiamo subito chi è “il grande me” poiché non ve ne è uno solo: spesso Carla rivede in se stessa suo padre e mentre Simone parla del grande sé del passato, rivela verità scomode. Al dolore della malattia, per i figli di Simone, si aggiunge la delusione per un segreto (o è solo fantasia?) nascosto per troppi anni. La ricerca che ne scaturisce, messa in atto all’insaputa del malato, rimpicciolisce lo spazio opprimente delle stanze, dove ormai anche Carla, Mario e Laura sono ritornati bambini.
Solo alla fine si chiarirà ogni cosa e l’incantesimo verrà spezzato. Il grande me è sempre stato lì, incastrato nelle pareti non solo di una dimora ma della mente.
Fonte immagine copertina: Fazi editore