È cosa nota che Giacomo Leopardi, maggiore poeta dell’ottocento italiano se non di tutta la nostra letteratura, non goda di simpatie tra studenti e professori. Questi ultimi, in particolare, si limitano a descriverlo come un giovane rovinato nel fisico e perennemente triste nell’animo, tutto concentrato nel suo mondo fatto di carte e di zelanti studi. Ma ci sono (per fortuna) anche professori che dimostrano il contrario. Alessandro d’Avenia è uno di questi e lo fa con la sua ultima fatica letteraria: L’arte di essere fragili.
L’arte di essere fragili, Alessandro d’Avenia a tu per tu con Leopardi
Attraverso la struttura di un’immaginaria epistola indirizzata a Leopardi (e questo espediente si ricollega alla “Lettera ad un giovane del XX secolo“, l’opera pensata dallo stesso poeta e mai trascritta) L’arte di essere fragili cerca di presentare un’immagine alternativa di Leopardi, pur essendo vincolata alla biografia a tratti infelice del poeta di Recanati.
Ciononostante, d’Avenia mostra come sia sbagliato giudicare le cose solo dalla loro superficie. Il suo è un Leopardi umano, sognatore, ribelle, a tratti anche ironico. Ci viene presentato anzitutto un giovane come quelli del nostro tempo, con tutti i suoi sogni e le sue speranze, insofferente alla rigidità dell’ambiente familiare e al clima sempliciotto del paesino di Recanati. È il Leopardi filtrato dalla sua esperienza di lettore, che lo accompagna fin dalla giovinezza.
Leopardi alla ricerca della felicità
Ma quello che più colpisce (e che suona come una provocazione) è il fatto che nelle sue poesie Leopardi abbia anelato alla felicità e questo lo rende molto simile agli adolescenti e ai giovani di oggi.
Perché in fin dei conti Leopardi non era tanto diverso da noi. Anche lui cercava il proprio posto nel mondo, un motivo per essere vivo e per dare un senso al mondo.
Ha cercato di farlo in ogni modo: i viaggi nella Roma tanto lontana dai fasti dell’antichità e nella Napoli popolare che gli ispirerà La ginestra. Gli amori per Silvia e per Fanny Targioni Tozzetti, l’amicizia con Ranieri e Pietro Giordani, la disperata lotta contro chi osteggiava i suoi scritti tanto lontani dal gusto romantico e progressista dei suoi contemporanei.
E la sua poesia più famosa, L’infinito, non può forse essere la degna rappresentazione del suo animo? Quella siepe che “il guardo esclude“, può non rappresentare gli ostacoli che ognuno di noi si ritrova a dover superare per raggiungere la tanto agognata felicità?
L’arte di essere fragili va quindi inteso non come un romanzo o (peggio ancora) un saggio sulla figura del recanatese più noto al mondo. Il libro di d’Avenia andrebbe considerato un dialogo tra l’autore e uno dei “maestri” che l’hanno formato, quasi alla stregua di quello tra Dante e Virgilio nella Commedia.
Ma qui non ci troviamo davanti ad un viaggio il quale necessità di una purificazione per raggiungere la bellezza dell’assoluto. Anzi, qui è proprio la nostra “debolezza” ad essere un elemento costante per raggiungere il nostro angolo di felicità, quella fragilità citata anche nel titolo.
Fragilità intesa come accettazione di mostrarci al prossimo nostro come siamo realmente, senza avere paura del giudizio suo o degli altri. Una cosa difficile nella società odierna, dominata da una corsa inutile verso la perfezione, ma che di certo fa la differenza.
E ora che L’arte di essere fragili è stato tradotto in uno spettacolo teatrale, possiamo forse rispondere alla domanda che apre lo stesso libro: “Esiste un metodo per la felicità duratura? Si può imparare il faticoso mestiere di vivere giorno per giorno in modo da farne addirittura un’arte della gioia quotidiana?“.
Di sicuro esiste, basta saperla cercare bene.Alessandro d’Avenia ci è riuscito con la sua passione per le lettere. Tutti quanti noi con quello che ci illumina il cuore e gli occhi e senza rinnegarlo a noi stessi. Questo è il bello di “essere fragili”.
Ciro Gianluigi Barbato
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