Atti Umani, Han Kang | Recensione

Atti Umani, Han Kang | Recensione

Atti Umani, edito da Adelphi nel 2017, è l’ultimo romanzo pubblicato in Italia di Han Kang, con cui ha vinto la ventesima edizione del Premio Malaparte. Nel discorso di ringraziamento la scrittrice ha affermato: «Non ho scritto questo libro per me. Volevo solo prestare le mie sensazioni, la mia esistenza, il mio corpo a coloro che sono stati uccisi, ai sopravvissuti e alle loro famiglie. E alla fine mi sono accorta che erano loro ad aiutare me. Io non ho fatto nulla. Ho solo scritto un libro.»

Han Kang, biografia

Han Kang nasce a Gwangju, Corea del Sud, nel 1970. La sua famiglia si trasferisce nel 1979 a Seoul, dove la scrittrice frequenta l’Università Yŏnsei laureandosi in letteratura coreana. Nonostante una prolifica carriera letteraria in Corea del Sud, resta pressoché sconosciuta in Occidente fino alla pubblicazione del pluripremiato La Vegetariana (Milano, Adelphi, 2016).

Atti umani, trama

Atti umani porta alla luce i violenti avvenimenti del massacro di Gwangju del 1980, che ebbero origine dalla complessa situazione politica della penisola coreana alla fine degli anni ’70. «Per favore, scriva il suo libro in modo tale che più nessuno possa oltraggiare ancora la memoria di mio fratello» leggiamo nell’ultimo capitolo; per molti anni infatti questa sanguinosa parentesi della storia coreana è stata ignorata, ma Han Kang nel suo libro-inchiesta concilia letteratura e denuncia per tentare di dare voce a vittime dimenticate da ormai più di trent’anni. Il romanzo è diviso in sette capitoli, ognuno dei quali si concentra su un personaggio diverso ma ad ogni modo legato a Dong-ho. Quest’ultimo, protagonista del primo capitolo (Il ragazzo. 1980), è un giovane di quindici anni che ha visto morire il suo migliore amico durante una manifestazione e che, nel tentativo di cercarlo, diventa uno dei volontari che si occupano dei numerosi cadaveri. Attraverso descrizioni cruente e dettagliate la scrittrice trasmette al lettore la paura del quindicenne e soprattutto l’orrore di quelle scene in modo particolarmente realistico. Nei capitoli successivi, tramite il climax ascendente di sofferenza che caratterizza i racconti, si scoprono le cruente storie dei personaggi e il legame tra loro. L’ultimo capitolo, La scrittrice. 2013, racconta infine la storia dal punto di vista della stessa Han Kang e il lavoro di documentazione effettuato per la stesura del libro. Lavoro tutt’altro che facile, che deve aver immensamente segnato la sfera emotiva dell’autrice come possiamo leggere in questo passo del libro: «Dopo due mesi, verso la fine di Gennaio, sentii che non ero più in grado di continuare. A causa dei sogni. […] Perchè per me le stagioni continuavano a succedersi, mentre per lui il tempo si era fermato per sempre a quel Maggio?».

Stile e legame con la letteratura classica

È interessante osservare lo stile caratterizzato da un continuo cambio di prospettiva e narratore, passando dalla seconda alla terza persona per poi raccontare la storia da un punto di vista interno. Han Kang si esprime tramite episodi isolati e leggermente frammentati, una sintassi breve e semplice che determina il veloce ritmo narrativo, continui flashback, immagini tristi e macabre (talvolta esageratamente ripetute) che rendono la narrazione particolarmente accattivante. Da questo intreccio di prospettive e di maestria fuoriesce un romanzo che ricostruisce vicende di persone che hanno vissuto quei momenti e per cui in seguito non vi è stato nessun ritorno alla normalità, ma ad ogni modo legato da un sottile filo alla tradizione della letteratura classica femminile coreana. Quest’ultima privilegia la forma diaristica (come lo Hanjung-nok scritto dalla principessa Hong o il Kyech’uk ilgi attribuito a una dama di corte) o le naebang kasa, i cui temi principali erano la vita quotidiana e sentimenti personali. Le autrici classiche coreane si dedicavano alla psicologia dei personaggi e dei sentimenti in una società in cui le donne facevano parte di un mondo chiuso e privo di particolari stimoli e, proprio per questo, alla letteratura classica femminile è accostato spesso il nome “letteratura delle stanze interne” o “letteratura di palazzo”. Tutto ciò rimane una pesante eredità per le scrittrici contemporanee, incapaci di staccarsi del tutto dalla radicata cultura coreana. In un articolo del Professor Maurizio Riotto su L’indice dei libri del mese leggiamo: «L’ignoranza generale sulla Corea però è rimasta quella di prima, […] ci si può rendere conto di quanto sia stato facile creare, nell’esaltazione generale, leggende e miti, nonché trasformare il ferro in oro. A tale proposito, Atti umani è un romanzo perfetto per gli occidentali, che sempre si deliziano di leggere di torture e atrocità commesse dal dittatore di turno: in questo modo, essi rafforzano narcisisticamente l’autostima e l’auto convinzione di essere fortunati (se non proprio culturalmente migliori) e si ammantano di riconoscenza verso il sistema per aver potuto vivere in un mondo ritenuto libero.» Non si può negare la maestria stilistica e la straordinaria capacità descrittiva della scrittrice, in grado di catapultare il lettore direttamente nella scena ed emozionarlo, ma che sia questa tendenza occidentale di fondo uno dei principali motivi dell’enorme successo del romanzo? In un mondo che attualmente si interessa sempre di più alla Corea del Sud e alla sua cultura, Han Kang può certamente vantare di aver portato in Occidente una parte di storia troppo a lungo ignorata e che, grazie a lei, non sarà facilmente dimenticata.

Fonte immagine in evidenza: Adelphi

 

 

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Benedetta De Fenzo (1995) studia Coreano e Giapponese presso l'Università di Napoli L'Orientale. Nel tempo libero si dedica alle sue passioni principali: la cucina, la musica, gli animali e la letteratura.

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