Volendo utilizzare le parole dello scrittore Massimiliano Virgilio, Anna Marchitelli, «poetessa-scurpiona» nella sua prima raccolta di poesie Certe stanze ha realizzato uno «zodiaco di parole».
I lettori, «disarmati e nudi», come al momento viscerale della nascita, devono vagare in questa realtà oscura, dal gusto misterico, spesso macchiata di sangue, sudicia di fango, cercando di decifrare segnali, immagini bestiali che poco avranno delle feroci fiere di Dante o degli animali guida dei racconti fantastici. L’uomo è bestiale in quanto simile a questi animali, gli animali sono sempre più bestiali perché ricordano l’uomo.
Il lettore che abbia conosciuto Anna Marchitelli e la sua raccolta poetica Certe stanze all’incontro di presentazione avvenuto nell’angolo letterario di LaterzAgorà presso il Teatro Bellini, non potrà che ricordare la grande interpretazione degli attori, con l’accompagnamento musicale, e quello dell’autrice stessa. Le loro voci risuonano nella mente nella lettura di ogni poesia. La forza di Anna Marchitelli risiede però nella capacità di comporre una raccolta che di per sé ha già una voce acuta, disarmante, piena, che ingombra le pagine di per sé quasi spoglie, fatta eccezione per le composizioni di una maggiore estensione.
I versi vengono recepiti come urlati, un grande grido alla vita, all’amore, al mistero che si cela nelle nostre viscere, alla profondità intesa non solo come spessore psicologico, ma anche come spessore cutaneo, quello che è dentro di noi è analizzato dalla prospettiva anatomica. «Corpi concavi, accoglienti e ferini, voluttuosi e feroci, come può essere il corpo di una donna», citando ancora la Prefazione di Massimiliano Virgilio.
L’attenzione riposta nella figura femminile e nel suo corpo come caverna, probabilmente dettata dalle vicissitudini biografiche della Marchitelli, cornice e causa di quel periodo della sua vita, parte dalla visione predominante nelle prime composizioni della raccolta, quella della Grande Madre, alla ricerca della Grande Madre che risiede in una donna piccola piccola, quella stessa donna che ha sposato un cavallo, come recita una poesia dell’ultima sezione della raccolta.
La divisione in quattro sezioni non prevede un riferimento tematico netto. Il primo impatto è quello con la ferinità, quella che non conosce genere o età, ma che alberga in ognuno. La nostra unica possibilità di conoscenza completa di noi stessi è quella di immergerci nei nostri umori, superando l’epidermide e penetrando nelle viscere. La sintonizzazione con la natura è progressivamente illustrata nella prima sezione, Ferina Levità, nella quale non mancano rifermenti espliciti alla natura che circonda immediatamente la scrittrice: quella di Napoli.
«Messo a bollire il sangue nel Vesuvio/l’ha riversato nelle arterie» scrive Anna Marchitelli
Il virtuosismo della Marchitelli sta nel non citare mai in modo esplicito la città, ma nel ricollegarsi a essa con elementi che la caratterizzano, creando quasi un linguaggio in codice che solo chi abbia vissuto sulla propria pelle la Città potrà davvero recepire. La pelle salata dalle acque del Golfo, salsedine tra capelli di «sirena e seni scoperti», bollore della lava nelle vene di strega, ma anche nel sangue della sacralità profana di San Gennaro. Napoli si nasconde tra le pieghe, se ne sente continuamente il profumo. O per meglio dire, la «puzza di antico», quella cui Anna Marchitelli fa riferimento costante. Il desiderio di lanciarsi nel «già stato» è quel senso di malinconia che si prova entrando in un ripostiglio, o come il senso di dolore di fronte a un presente incerto. «Nella direzione gentile/tutto muove/piagato inferno». Ancora una volta un rito propiziatorio, una preghiera, può salvarci, l’esoterismo che regna sulla poetica di Certe stanze. «Prego così/-santissimo verbo umano-/quando mi salvo».
«La verità non abita più l’oggi/nemmeno nel vocabolario/la sua voce si è dispersa». Da questa consapevolezza nasce la corsa frenetica della sua poetica, quella del «Siamo figli di», in una frenesia che si manifesta anche nella scelta grafica della pagina, affollata da una parte all’altra da voci confuse, irate, ironiche. «A proposito/io sono figlia di questo tempo e sorrido ancora» sembra concludere Anna Marchitelli. Immediatamente dopo però, ricorda i «giovani accartocciati». Il suo essere in vita consapevolmente, ma soprattutto quell’espressione che la caratterizza, quel sorrido, è stato reso possibile da un percorso. Letteralmente, di un percorso di crescita interiore. Il suo grembo ha ospitato la vita, e questo rapporto con il fango, con le urla esalate a cielo, l’alterità l’ha portata alla conoscenza di sé, alla convivenza con il suo io bestiale, al suo essere madre.
«Senza nome ti chiamo/ ti voglio guardare/ avanza nell’ombra
spalancami/ sono la tua porta», recita ancora Anna Marchitelli in Certe stanze
Un sacrificio umano, un «salto io per farti esistere» che è ancora una volta reminiscenza di un rito che unisce amore a dolore. L’ultima sezione Ho sposato un cavallo, indaga le sfaccettature dell’amore, di quello tenero che rende madri, di quello violento, quello che rende un cavallo l’uomo, l’uomo una belva, la belva una divinità. «Ho sposato un cavallo/l’odore aspro della natura/lo slancio d’animale/il cuore di un dio».