Clémence ed il vuoto: La Caduta di Camus | Recensione

Clémence ed il vuoto: recensione de "La Caduta" di Camus

La Caduta è un vero e proprio monologo che Clémence, eloquente avvocato parigino, intrattiene con il lettore coinvolgendolo direttamente nel porsi domande e nel giudicare la vita di quest’uomo attraverso i suoi racconti misteriosi. L’opera, scritta da Albert Camus e pubblicata nel 1956, rappresenta il terzo dei cinque romanzi dell’autore franco-algerino e segue due grandissimi successi come Lo Straniero e La Peste. La pubblicazione risale appena a 4 anni prima della morte dello scrittore, avvenuta a causa di un incidente automobilistico: all’interno del veicolo fu ritrovata una valigetta contenente il manoscritto de Il primo uomo, rielaborato dalla figlia Catherine e pubblicato postumo nel 1994.

Il romanzo cattura l’attenzione del lettore fin dalle prime righe, grazie alle suggestive descrizioni dell’ambientazione e lo tiene sulle spine fino alla conclusione della storia, portandolo a porsi numerosi interrogativi sulla figura del protagonista, sulla sua etica e sul vuoto che ha caratterizzato la sua vita nonostante i mille racconti.

Trama

Ad Amsterdam è notte fonda, la nebbia ed il buio più fitto avvolgono la città in un gelido abbraccio. Cercando riparo dal freddo nel Mexico City Bar, ci si imbatte nella cordiale figura dell’avvocato francese Jean-Baptiste Clémence, il quale apre il suo monologo coinvolgendo il lettore senza alcun preavviso. Costui inizia a raccontare la storia della sua vita, dando inizio al suo piano machiavellico: egli infatti descrive minuziosamente l’ottima reputazione che gli era stata attribuita dalle alte classi della società parigina, nella città dove egli era nato e cresciuto, dichiarando però apertamente che dietro le sue maniere garbate e le sue innumerevoli buone azioni si cela in realtà un uomo egoista e disonesto, incapace di provare una qualsiasi forma di empatia nei confronti di tutte le persone presenti nella sua vita, aiutate con il solo fine di accrescere il proprio ego. Il picco del cinismo viene raggiunto dall’avvocato una notte in cui non tenta di salvare una donna che si era appena gettata da un ponte nelle fredde acque della Senna, ignorando le sue urla e i giornali dei giorni seguenti che avrebbero presumibilmente riportato la notizia della sua morte.

Se la superficie di questa persona appare glaciale e distaccata, il suo subconscio invece inizia a giocargli brutti scherzi: durante una passeggiata notturna gli pare di udire una risata agghiacciante, la quale diviene poi una sensazione ben definita, che, come un’ombra, sembra seguirlo anche nei giorni successivi in momenti casuali delle sue giornate, gettando Clémence in preda all’ansia e allo sconforto più totale.

La fuga ad Amsterdam

Così Clémence rinuncia alla sua vita di vizi, scappando da Parigi verso l’Olanda e tenendo un basso profilo, ma la risata continua a perseguitarlo. Raccontando questa enigmatica storia, l’avvocato conduce il lettore in giro tra i labirintici canali di Amsterdam, fornendogli un’immagine tetra ed alienante della città. Il lungo girovagare si conclude proprio presso la dimora di Clémence, il quale svela finalmente il suo scopo: sperare che il lettore possa essere un rappresentante della legge così da mostrargli un preziosissimo quadro rubato insieme al proprietario del Mexico City, con l’intento di farsi arrestare e porre finalmente un freno al suo animo errante.

Tuttavia, non vi è alcun segno di pentimento, poiché Clémence afferma senza mezzi termini che se potesse ritornare indietro si comporterebbe allo stesso modo, dando sfogo ad ogni vizio, continuando a trattare cortesemente il prossimo solo per compiacere sé stesso, ignorando ancora una volta una povera donna intenta a gettarsi da un ponte.

Riflessioni sul testo

Su questo personaggio grava l’enorme compito di rappresentare un intero spaccato della società contemporanea occidentale, prettamente incentrata sul raggiungimento dei propri scopi personali anche a scapito degli altri e totalmente incapace di essere in armonia con il prossimo: più Clémence alimenta il proprio ego con il suo modo egoista di stare al mondo e più si distacca dal contesto che lo circonda, ignorando totalmente la cosa poiché troppo concentrato su sé stesso.

Camus riesce perfettamente a trasmettere al lettore la vacuità della vita del protagonista, facendolo vagare senza meta e senza affetti, ma, nonostante ciò, l’avvocato non ha la capacità di cambiare o redimersi: egli, infatti, non ha fatto altro che rifugiarsi nel suo egoismo per tutta la vita, ed è impensabile quindi che possa mostrarsi diverso. Eppure, sia nel vuoto dei vizi di Clémence che nella sua incapacità di pentirsi, il lettore può trovare dei punti di contatto, riconoscendo dei meccanismi molto presenti nella vita di tutti i giorni. Ciò che stupisce è il modo estasiato con cui gli altri personaggi ammirano la figura dell’avvocato, ignorando completamente la sua vera natura, nascosta dietro le apparenze del quotidiano. Ma laddove le persone non riescono, interviene la coscienza: per quanto lo voglia, Clémence non riesce infatti a scappare dal suo stesso giudizio, che lo perseguita fino a privarlo di ogni cosa.

Il racconto lascia quindi un punto di domanda irrisolto e indefinito: il lettore prova empatia per un uomo in quanto perfetto rappresentante della società che lo circonda o disprezzo per la sua natura egoista? La fitta nebbia di Amsterdam accompagna questo quesito, lasciando la storia sospesa in una sorta di limbo, tra l’esoterico e il reale.

Immagine tratta da Wikipedia Commons

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