«I corpi, compresi gli insiemi di corpi-strutture connessi tra loro e collegati al suolo, […] le matematiche, le geometrie, […] l’analisi matematica ed i computer non possono, a mio avviso, costruire architettura, urbanistica, restauro urbano, architettonico, opere del miglior ingegno edile degne del nome.»
Il saggio di Nicola Mazzeo, Dalla struttura alla poesia e dalla terza alla quinta dimensione, 2010, Albus Edizioni, Napoli analizza i rapporti tra le cosiddette “scienze esatte” e le loro applicazioni pratiche spesso assai limitate. Con originalità di pensiero e linguaggio tecnico è spiegato come molti edifici e costruzioni contemporanee non meritino l’appellativo di opere architettoniche poiché scevre di armonia e poesia, elementi essenziali per generare visivamente benessere e rendere, in un certo qual modo, più vivibile la vita quotidiana, città e territorio.
Il problema di fondo dell’architettura odierna, secondo l’autore, è la mancanza di elementi minimi ed essenziali che armonizzano gli interi spazi allo stesso modo di come le paroles, unità linguistiche minime della lingua verbale, rendono poesia un insieme di parole. Vanno a sovrapporsi così, attraverso un diverso tipo di percezione sensoriale, la bellezza suscitata dalle immagini e quella armoniosa della poesia, la quale applicata all’architettura, che si traduce in luce e colori, diviene così l’elemento mancante delle architetture odierne «buie, mute, incolori» rese tali da una cultura del passato venuta meno.
Tramite poi la funzione dello Spazio-Tempo di Albert Einstein l’autore sottolinea come oltre alle variabili proprie delle tre dimensioni dello spazio abbiano peso fondamentale il Tempo e la Luce intesi, oltre che nel loro valore scientifico, il primo come Memoria storica e la seconda come Poesia armoniosa di colori arrivando a definire «il restauro urbano ed architettonico […] conservando i più poetici segni spaziali venienti da Gaia e dai nostri padri poeti», quindi «l’urbanistica nuova deve essere un’operazione che aggiunge – rinsanguandole – nuove poesie a quelle antiche.»
Tale riscoperta della poesia aggiunge alla “tridimensionalità urbana” una “quarta dimensione” e una “quinta dimensione” rappresentate, come si è detto, dalla Luce e dal Tempo che rendono «poetici volumi puri» – come sostiene anche l’architetto, urbanista e pittore Le Corbusier – e tali nuove dimensioni architettonico-poetiche contribuiscono a rendere più vivibile la realtà che ci circonda la quale così puó “riuscire a parlarci” e a comunicarci sensazioni di benessere e bene-esserci e senso di appartenenza al nostro luogo di origine attraverso il silente linguaggio delle immagini.
Leggendo il libro si nota come questa antica arte dell’architettura, che viene considerata dall’autore come “un poetico architettare per la vita”, vada scontrandosi con una logica capitalistica mirante più al mero lucro che alla qualità delle costruzioni le quali in questo modo, oltre a essere causa di gravi danni e catastrofi, vengono ormai brutalmente denudate di questo loro linguaggio poetico. Eius faber suae quisque fortunae ed è l’uomo faber anche del mondo che ciascuno di noi circonda e così a questa antica massima si possono affiancare le parole di uno dei più importanti architetti del Novecento:
«Ciò che l’uomo fa, egli è ed egli ha.» (F. L. Wright)