Un vecchio scrittore non di gialli reso famoso da un giallo da best seller che cerca di trovare un finale alla sua vita che sta per finire, proprio come un romanzo; un timido bambino che cresce con la paura surreale della potenza devastatrice dell’acqua decide di non lavarsi mai più; un venditore che ha tutte le soluzioni ai problemi del mondo in un navigatore satellitare; e ancora i sacrifici di un padre di famiglia di adattarsi all’imposizione di un nuovo lavoro nato dall’evoluzione dei tempi che cambiano a causa della fantomatica crisi; la consapevolezza di un giovane uomo di dover apparire per forza di cose come gli altri ti vedono; la realtà politica contornata da buoni propositi ma che nasconde l’ipocrisia del perbenismo: queste alcune storie della raccolta di racconti Dindalè – conti di poco conto di Armando Vertorano (Go Ware editore, collana Pesci Rossi).
“A metà strada tra formula magica ed espressione dialettale, dindalè era la parola che mia madre usava ogni volta che voleva rifiutarmi qualcosa. Dindalè significava che le mie serissime motivazioni per lei non avevano alcuna importanza” ci dice l’autore. In un certo senso ogni storia sottolinea, in maniera bizzarra e irreale, come situazioni del quotidiano o semplici realtà presenti nel mondo che ci circonda possano essere il risultato ben visibile a tutti di contraddizioni e assurde considerazioni dell’essere umano che con i suoi eccessi ne plasma i contenuti; ciò che tenta Vertorano infatti è di mostrare al lettore gli aspetti più buffi e fantasiosi che si estraggono da queste realtà, minimizzandole in apparenza e mettendole ancora di più in rilievo attraverso l’ironia e la comicità di un punto di vista paradossale, anche se in alcuni punti incappa in un artefatto stupore.
Dindalè, il racconto nei racconti
Così ad esempio è il racconto Errare humanum est, in cui il protagonista, morto inaspettatamente e nel modo più comune, in un attimo si ritrova alle porte del Paradiso, dove uno spiritoso San Pietro inizia a sfatare i falsi miti della religione cristiana; oppure il racconto Gli occhi addosso, dove una grassa e timida pubblicitaria che viene notata da un avvenente ragioniere riuscirà finalmente a zittire le colleghe pettegole che solevano divertirsi alle sue spalle, capovolgendo lo stereotipo dell’estetica femminile. Oppure il dolce racconto Il turista, che sintetizza la bellezza malinconica di Lisbona vissuta dalle sensazioni di un cieco, deciso ad affrontare e superare coraggiosamente gli ostacoli del suo handicap. Ciò che emerge maggiormente tra le righe delle storie di Dindalè non è solo il paradosso: è un mondo immaginativo quasi favolistico, visto dagli occhi di un bambino, anche se nella storia non ci sono bambini; e questo mondo fanciullesco risalta palesemente nell’ultima storia, Prince Bastian II (il cui sottotitolo non è a caso “favola della buonanotte”): chiuso nella piccola realtà utopica e virtuale di un videogioco, Luca vive attraverso lo schermo le fattezze di un eroe inesistente e mille fantastiche avventure.
Di fronte alle difficoltà della vita, alla crescita verso l’età adulta e i suoi conseguenti problemi, l’autore si oppone con semplice e leggero approccio contro un mondo che “quei problemi nemmeno li vede, o se proprio gli capitano sotto agli occhi, al massimo li liquida con un dindalè”.