Jonathan Franzen è tornato in libreria con Crossroads, primo volume della trilogia intitolata A Key to all Mythologies: la crisi di una famiglia protestante del Midwest diventa l’emblema della continua rifondazione dei miti negli Stati Uniti d’America.
Nel suo manifesto di inizio carriera pubblicato per Harper’s Perché sognare?, rielaborato nel 2001 con il nuovo titolo Perché scrivere romanzi?, Jonathan Franzen racchiudeva il desiderio di scrivere il nuovo grande romanzo americano, o almeno riportare il romanzo americano alle sue gloriose vette. All’epoca Franzen era un prodigioso esordiente 37enne e stava faticosamente preparando Le Correzioni, e ora che ha 62 anni con Crossroads ha consegnato quello che sembra avvicinarlo – e avvicinarci – alla realizzazione di quel desiderio.
Si può obiettare, come fa una parte di critica americana, che Franzen è praticamente un boomer, oltre che un maschio, bianco, etero: che cosa può raccontarci dell’America contemporanea, e come può farlo? Crossroads è un’epopea, una storia che prosaicamente poteva essere raccontata con la metà delle 600 pagine impiegate, ambientata all’inizio degli anni ’70. Se queste sono le premesse per il nuovo grande romanzo americano, a prima vista non sembrano incoraggianti.
Crossroads: il nuovo grande romanzo americano, atto primo
Invece con Crossroads, Franzen torna al suo splendore e l’espediente che usa è il più classico della letteratura, nonché suo cavallo di battaglia: ricorrere alla saga familiare come luogo ideale per descrivere il groviglio di aneliti e disperazioni dell’umanità. Quale entità è in grado di racchiudere lo spettro di emozioni ed esperienze complesse con la stessa potenza della famiglia? Come fu per Le Correzioni, in Crossroads è il romanzo classico che Franzen vuole far rivivere, quello sociale, ottocentesco, di cui si è cantato il requiem a lungo e di cui altrettanto a lungo si è vivisezionato il corpo.
Nel suo saggio per Harper’s del 2001 Franzen racconta di essersi sentito «salvato» dal romanzo che stava leggendo in un periodo buio della sua vita – Quello che rimane di Paula Fox. Eppure il potere salvifico, personale e collettivo, di cui è dotato o dovrebbe essere dotato il romanzo come genere, appariva polverizzato dall’impatto dei nuovi media sul dibattito pubblico, registrando «l’incompatibilità del lento lavoro della lettura con l’ipercinesi della vita moderna». Poteva dirsi allora che il romanzo era morto? Che nell’epoca di Pynchon, Don DeLillo e David Foster Wallace il realismo sociale della letteratura era definitivamente tramontato, vinto dall’alba del postmodernismo? Dove andava a finire quel genere che condensava il racconto della storia contemporanea, delle ideologie, dei lettori che cercano conforto, connessione e decodificazione della loro vita quotidiana nei romanzi?
C’era qualcosa di profetico in quel saggio che Franzen rielabora nel 2001: la postmodernità crollò insieme alle Torri Gemelle, quando il mondo rimpiombò violentemente nella storia e nei conflitti sociali mai risolti e l’umanità scopre l’ottimismo malriposto del progetto di “uomo nuovo”. L’uomo è ancora uguale a se stesso e sente il bisogno di essere narrato, e una settimana prima dell’attentato alle Twin Towers Franzen pubblica quel tomo denso di introspezione domestica, di inadeguatezza borghese e di ordinaria infelicità contemporanea che è Le Correzioni. Lo stesso Romano Luperini ha visto nell’11 settembre 2001 la fine del postmoderno, gettando una luce sull’intuito di Franzen che, dopo Le Correzioni, non è stato ritrovato né il Libertà né, soprattutto, in Purity.
Gli Hildebrandt: il ritorno nel Midwest di Franzen
L’architettura della storia della famiglia Lambert de Le Correzioni rivive nella famiglia Hildebrandt di Crossroads. Scandagliare le relazioni umane imperfette è il marchio di fabbrica di Franzen e, come se si stesse candidando a moderno Tolstoj, già l’incipit è un tuffo nel cuore della crisi della famiglia Hildebrandt, infelice a modo suo a cavallo tra il 1971 e il 1972: a New Prospect, sobborgo immaginario del Midwest, il pastore Russ è pericolosamente attratto da una sua giovane parrocchiana, Frances Cottrell, e lo spirito dell’Avvento soffia malauguratamente sul fuoco di questa passione. Economicamente e professionalmente bloccato, la sua frustrazione sessuale è la molla che fa saltare l’apparente equilibrio domestico. Si innesca un turbine che risucchia e travolge la moglie Marion, più acuta del marito, ma angosciata e depressa, con una dolorosa frattura psichica mai rimarginata.
Mentre la supervisione dei genitori vacilla, i quattro figli della coppia declinano ciascuno a proprio modo le disfunzioni dei genitori: Clem lascia il college per cercare di arruolarsi in Vietnam con gran dolore del padre pacifista; Becky, cheerleader del liceo, vive in una sfera separata dalla sua famiglia per poi cadere preda di una crisi mistica; Perry è un giovane spacciatore drogato intelligente sopra la media; Judson, nove anni, è una comparsa quasi muta almeno in questo primo volume. Gli Hildebrandt sembrano apparentemente uniti dalla sofferenza arrecata da Rick Ambrose, carismatico e ambiguo animatore del gruppo giovanile parrocchiale che dà anche il nome al romanzo, a seguito dello scandaloso e umiliante esilio di Russ dal gruppo stesso. Rick è il nemico comune verso cui si catalizza il risentimento e che sembra in qualche modo tenere in piedi la famiglia, ma il risentimento non basta.
Nelle circa 600 pagine, maestose, Franzen incastra flashback agghiaccianti sul passato di Marion (potentissimo e ultimo personaggio ad essere stato sviluppato, come raccontato da Franzen in un’intervista a La Repubblica) che si vuole collocare come l’origine di tutti i mali degli Hildebrandt, e momenti comici di Russ completamente rapito dall’amore, che si definisce «un clown fatuo, obsoleto e repellente». Il racconto del sesso è difficilissimo in letteratura e c’è qualcosa di imbarazzante nella narrazione che ne fa Franzen, più che di comico come era nelle sue intenzioni, anche se questo potrebbe essere funzionale a descrivere l’abisso del ridicolo in cui Russ precipita in preda alla passione per Frances.
Franzen stretto tra boomer e zoomer
Noto per le sue posizioni antimoderniste, non solo in letteratura (state lontani da Internet, diffidate dei social media, meglio dedicarsi al birdwatching), Franzen inaspettatamente sembra voler attirare l’attuale generazione di lettori ventenni, e non solo quella di vent’anni fa che gli è già affezionata. In questo pare di vedere il fantasma delle sue inquietudini letterarie: lui stesso rappresenta per la generazione di zoomer l’obsolescenza del romanzo, e che comunque cerca di imporre in forma rinnovata oltre gli anni 20 del duemila.
Crossroads è popolata di adolescenti e giovani adulti in preda a pulsioni adolescenziali, di adulti che furono un tempo anche loro smarriti, impressionabili, curiosi, imperfetti, e gli fa buon gioco in questo senso la sua straordinaria capacità di giocare con la retrospettiva. È come se in Crossroads fosse riuscito nell’intento di creare un genere davvero nuovo, un romanzo disordinato, in cui ogni capitolo è affidato alla terza persona che narra di un personaggio distinto mentre ruota intorno allo stesso evento. Un romanzo disordinato al punto che i capitoli non sono neanche numerati, dallo stile libero e indiretto, che non permette citazioni e che allo stesso tempo riesce a scolpire i contorni dei concetti, e senza temere solennità né azzardi aggiunge il tema della fede, mai affrontato prima d’ora da Franzen che si definisce «ateo non aggressivo», e nota dominante della sinfonia di Crossroads.
L’inizio degli anni ’70 è uno snodo per l’America: sbocciano movimenti femministi e omosessuali, il sistema sociale e il modo di vivere sono messi in discussione, a partire dalla proiezione dell’uomo sul corpo della donna fino a quella dello Stato sul corpo dei cittadini – la guerra in Vietnam è ancora in corso, lo scandalo Watergate non era ancora scoppiato. E così anche tutti i personaggi sono animati da una frenetica ansia transgenerazionale che li pone davanti al bivio tra liberazione o conservazione, ragione o illogico istinto o semplicemente cedere alle proprie passioni e sbagliare per essere felici.
Se c’è una cosa su tutte che emerge con forza da Crossroads è la profondità della speculazione degli Hildebrandt sulla realtà morale, religiosa, politica, sociale senza che ciò avvenga mai attraverso monologhi o sermoni. Ognuno affronta un travaglio filosofico – la guerra, l’amore, Dio, la monogamia, le dipendenze, il rapporto con il proprio corpo nel mondo, la razza – e lo racconta, lo attraversa, magari non lo elabora, ma lo vive, e lo trasmette con convinzione e rigore, con abilità emotiva ed empatica ma senza patetismi. È così che Franzen ha inteso resuscitare il romanzo come strumento per leggere la realtà contemporanea.
Foto di copertina: Einaudi