Da qualche settimana è disponibile in cartaceo e in digitale (open access) per Editoriale Scientifica il volume Il flagello e l’interprete. Quattro saggi su letteratura e disastri tra Cinque e Seicento, a cura di Antonio Perrone ed Edoardo Zorzan.
Il volume consta di un’introduzione scritta a quattro mani dai curatori, di quattro saggi e di una postfazione di Domenico Cecere. Ogni saggio traccia le coordinate della percezione del disastro in una specifica area nell’arco di circa un secolo, tra la fine del ‘500 e la fine del ‘600. Durante questo tempo, infatti, appaiono di particolare rilevanza quelle che i curatori del volume definiscono «scritture marginali»: sulla peste e sul mal francese a Venezia; sull’eruzione del Vesuvio; sul terremoto a Napoli e nel Sannio.
I Disaster studies
Il campo dei Disaster studies non è certo tra quelli più noti, anche tra lettori consapevoli. Tuttavia, quest’area di ricerca e produzione accademica, che studia in ottica storica come una comunità reagisce all‘imprevisto catastrofico, principalmente per mezzo delle sue produzioni scritte, porta alla luce aspetti rilevantissimi sulla società e sul suo orizzonte di senso, in un dato periodo storico. Si considerano imprevisti catastrofici – inondazioni, epidemie, eruzioni, terremoti – che hanno lasciato dietro di sé una vasta produzione non solo pittorica, che è sicuramente la rappresentazione che maggiormente torna alla mente del lettore, ma anche scritta: poemetti, trattati, pamphlets, cronache risultano da una ibridazione di discorsi, testimonianza sia del grande interesse per il tema catastrofico sia della definizione in corso delle categorie linguistiche, semantiche e morali, entro cui ascrivere i disastri. Da quest’ultimo punto, infatti, risulta chiaro come la comprensione di tali fenomeni, ancora libera dalla diagnosi scientifica, passasse fruttuosamente dalla mescidanza dei saperi, ovvero per il dialogo tra cultura popolare e cultura alta.
Il flagello e l’interprete
Il titolo del volume, Il flagello e l’interprete, rimanda direttamente ai due protagonisti dei quattro saggi: il disastro e i testimoni (oculari e non) che decidono di provare a interpretare e riordinare il senso distrutto all’interno di categorie note. Nell’Introduzione viene sottolineato come l’imprevisto catastrofico non solo scardina gli assi di un intero assetto sociale, non è solo un fatto umano, ma anche di parole, che serviranno prima a descrivere il flagello, ad interpretarlo e a riconnetterlo a un universo semiotico accettabile. In Tradizione e talento individuale, Thomas Stearns Eliot scrive che:
[…] perché l’ordine resista dopo il sopravvenire della novità, l’intero ordine esistente deve essere, sia pure di poco, mutato; e così le relazioni, le proporzioni, i giudizi di ciascuna opera d’arte rispetto alle altre vengono ordinati di nuovo: e questo è l’accordo tra il vecchio e il nuovo.
Il leggero mutamento che permette di assorbire la novità nell’ordine esistente è possibile proprio grazie all’interpretazione del flagello.
Allegorie del disastro
Nel saggio di Edoardo Zorzan La peste, David e una nuova tensione verso il sublime. Qualche appunto intorno ad alcune canzoni sulla peste di Venezia del 1576, si evidenzia come nelle canzoni di Giovan Battista Maganza il discorso biblico, nella figura di Re David assurto a simbolo, sia necessario per dare una dimensione morale al flagello: Venezia personificata supplica Dio perché plachi la sua ira contro la città che «ingrata al tuo fattor ti mostri» e che «ben volgeresti a me del tutto il tergo, / e diverresti di demonij albergo». Anche nella canzone di Giuseppe Policreti Se pianse già l’aspre ruine e i danni, Venezia, ancora personificata ma questa volta come una regina sofferente, è colpevole del suo male: «E volta in nero manto / l’alma città che’l rio velen sofferse / strida piangendo ogni suo caro figlio, / che morte punse co’l suo fero artiglio». La Serenissima, dunque, all’indomani delle invasioni ottomane, è nuovamente afflitta da una catastrofe e da tutto il male che ne deriva («il padre il figlio, il figlio il padre fugge, / la madre aborre la figliuola esangue, / l’un da l’altro fratel subito sgombra»); e tutto ciò è riconfigurato come la punizione ineluttabile per l’empia città e i suoi abitanti.
Più o meno allo stesso modo, a Napoli, si cercherà di interpretare l’eruzione del Vesuvio nel 1631 perché si imprimesse nella memoria collettiva. Nel terzo saggio del volume Il flagello e l’interprete, Vesuvio, Partenope e Bacco a confronto: analisi dei tre instant-book di Giovan Battista Bergazzano sull’eruzione vesuviana del 1631, Luca Ferraro pone l’accento sulla trasformazione dell’area vesuviana da locus amoenus a locus horridus. Mai prima di quella eruzione – l’ultima risaliva alla terribile del 79 d.C. – il Vesuvio era stato inglobato nella rappresentazione della città che, infatti, trovava il suo punto di fuga, nella mappa mentale dei napoletani, nel Castel Sant’Elmo. Il Vesuvio, dunque, viene riconfigurato semioticamente proprio dopo il 1631. Nel codice espressivo del disastro si sovrappongono linguaggio poetico e linguaggio scientifico – ancora embrionale -, l’uno tendente verso l’ignoto perché il nuovo assuma un aspetto riconoscibile per la massa, ad esempio attraverso il mito, l’altro cerca spiegazioni riconducendo il nuovo a un fenomeno noto. All’indomani dell’eruzione, tutta una serie di instant-book vengono diffusi affinché l’evento diventi exemplum, con un lavoro linguistico orientato al controllo e alla manipolazione di comportamenti. Così scrive Giovan Battista Bergazzano: «queste fiamme di sdegno […] ma de l’abisso son, mandate in terra / da la giustizia eterna / per l’altrui fiere colpe, / cadran prima le ville / sotto i furori suoi, / e poscia la città, che sol si vanta / esser pompa d’Italia, onor del Mondo» e dunque Partenope «quella, c’ha di Sirena il nome, e l’opre, ch’incantando se stessa, se medesma divora» (I Prieghi di Partenope, 119-132; 141-143).
La forza ctonia infernale esplode tra gli uomini non solo attraverso il Vesuvio ma anche, nel 1688, attraverso il terremoto che interesserà Napoli, l’Irpinia e il Sannio. Nel saggio Le continue e molte commotioni della terra: poesia, racconto e riflessione storico-scientifica sul terremoto del Sannio (1688), l’autrice Maria Di Maro osserva che sebbene vi siano tentativi di spiegazione scientifica, separando il poetico dalla natura, la ragione ultima del terremoto, che non può essere compresa dall’intelletto umano, è ancora il flagellum Dei. Ciò che l’uomo può fare in relazione alla catastrofe è osservarne i risultati; farne, cioè, da testimone e interprete, perché sia esemplare la condanna di Partenope festosa che diventa, ancora una volta, Partenope dolente. A Benevento il terremoto fu decisamente più devastante che a Napoli, e oltre alla moralistica di interpretazione del flagello, il terremoto diventa anche una cornice entro cui ascrivere certi fatti miracolosi. Di Maro, ad esempio, riporta il racconto del Cardinale Orsini che durante il sisma si salva grazie a un armadio che nel cadergli addosso si apre e gli sparpaglia tutt’attorno le effigie raffiguranti i momenti salienti della vita del Santo Filippo Neri.
La cultura di massa
Una volta che si prende atto delle letture degli interpreti, dunque, è bene che si interpreti anche la testimonianza; è necessario, infatti, contestualizzare il fenomeno di lettura della catastrofe. La visione del mondo e dell’uomo del Barocco è qualcosa di complesso su cui non è possibile soffermarsi in questa sede, tuttavia vale la pena ricordare che José Antonio Maravall, nel saggio La cultura del Barocco. Analisi di una struttura storica (1975), citato anche nel volume di cui ci occupiamo, parla di analogie tra l’organizzazione culturale del mondo barocco e quella odierna: entrambe, infatti, sono orientate al mass-cult e al mid-cult come strumenti di una azione psicologica sulla società di tipo mediale. La società gerarchica barocca è una cultura orientata dall’alto e volta alla manipolazione di comportamenti ed emozioni collettive. Pierre Charron osservò che la vera scienza e il vero studio dell’uomo è l’uomo stesso, intendendo che l’uomo, nel periodo a cui facciamo riferimento più che mai, ha bisogno di poter agire governando gli altri uomini e la loro società, per cui ha bisogno di conoscerli, utilizzando tutte le risorse linguistiche: l’arte, la letteratura, le scienze del Barocco offrono una testimonianza di ciò. E in tale contesto anche il valore della testimonianza personale diviene la base per organizzare mentalmente la relazione pratica dell’individuo con il mondo.
Di conseguenza, anche l’idea di autorevolezza viene messa in discussione: nel saggio di Erica Ciccarella Dall’experientia all’auctoritas e viceversa: l’industria tipografica e le epidemie nel XVI secolosi spiega chiaramente come la cultura popolare abbia avuto un bacino di utenza molto ampio fino alla metà del ‘600 e come di questa cultura si sia servita l’industria tipografica per orientare gusti e comportamenti. Nell’ambito delle epidemie, ad esempio, era frequente che circolassero dei libretti, dei ricettari, dei Remedia o Segreti scritti da chi guariva dal contagio epidemico e quindi offriva la propria esperienza di cure e rimedi replicabili in casa. Questi testi erano basati unicamente sull’esperienza personale ed erano naturalmente stampati in volgare: di contro, l’ars medica degli studia generalia perdeva il suo terreno di autorevolezza per far posto all’ experientia, un sapere immediatamente praticabile.
Il flagello e l’interprete e il Barocco
Il flagello e l’interprete, dunque, esprime bene quel progressivo senso di precarietà del Barocco, epoca di costante movimento disordinato e finanche contraddittorio, di mescolanza di saperi e consuetudini, in un momento in cui le neonate scienze più che fornire sicurezze, apportano incertezze su quanto era ancora esperito come quotidiano; un’epoca che abbraccia ancora il sovrannaturale, l’altrove – magico o religioso – coagulando tutto nell’esperienza personale, che è esperienza della totalità della vita, nel tentativo di comprenderla e riassorbirla anche nelle sue manifestazioni più estranee. Tutto ciò Il flagello e l’interprete lo mostra con i testi da cui parte (raccolti in appendice), con le annotazioni di vita dell’epoca, senza mai interrompere il ritmo incerto di chi ha inteso comunicare immediatamente il flagello, a vantaggio di un’ipertrofia dell’apparato esplicativo, generando un discorso fondamentale per la lettura di un’epoca dell’uomo – ancora prima che di una categoria storiografica – in cui il nostro moderno inizia a delinearsi.
Fonte immagine in evidenza: Editoriale Scientifica
Fonti:
G. Alfano, M. Barbato, C. Mazzucchi (a cura di), Tre catastrofi. Eruzioni, rivolta e peste nella poesia del Seicento napoletano, Cronopio, 2002.
José Antonio Maravall, La cultura del barroco. Análisis de una estructura histórica, Editorial Ariel, 1975.