Il peso, di Liz Moore | Recensione

Il peso di Liz Moore

Liz Moore racconta il peso della solitudine

Dopo il successo della pubblicazione di Il mondo invisibile (2020) e I cieli di Philadelphia (2021), la casa editrice NN Editore torna a pubblicare Liz Moore, questa volta scommettendo sulla riedizione del romanzo d’esordio della pluripremiata autrice statunitense, già edito Neri Pozza (2012): Il peso, un romanzo che, indagando varie e diverse forme di solitudine, indaga la solitudine dell’uomo contemporaneo, spesso prigioniero di un peso che lo schiaccia: quello del proprio, ingombrante corpo, quello delle aspettative proprie ed altrui, quello di una malattia mentale con cui dover fare i conti ogni giorno, quello con il futuro, che inesorabilmente si avvicina, come nuvoloni all’orizzonte che minacciano pioggia, quello della mancanza di legami veri e duraturi, di un amico che si possa definire davvero tale.

Arthur Opp, ex-professore universitario ritiratosi dalla vita lavorativa e sociale per rintanarsi nel suo appartamento di New York, affronta il peso della solitudine rimpilzandosi di cibo, utile strategia di coping che tuttavia non fa che trascinarlo sempre di più nel baratro di depressione e solitudine, perché il suo stato di grave obesità gli impedisce, ormai, di affacciarsi al mondo esterno ed interagire con gli altri, un po’ per le reali difficoltà fisiche legate alla condizione in cui versa e un po’ per l’imbarazzo per la propria condizione ed il disgusto di sé. L’unico legame col mondo esterno sono le lettere di Charlene Turner, una studentessa universitaria con cui l’uomo ha avuto una relazione platonica vent’anni prima e con la quale intrattiene, da allora, una corrispondenza epistolare che acquista un significato profondissimo e lo tiene ancorato alla vita, sebbene in un eterno presente, fatto di cibo consegnato a domicilio e televisione, con lo sguardo rivolto malinconicamente al passato e al futuro che non ha potuto vivere. 
Kel è il figlio di Charlene, un talentuoso diciassettenne che vive con la madre in un quartiere povero e che vede nel baseball la sua unica possibilità di riscatto sociale, mentre sua madre, che non ha avuto la possibilità di proseguire gli studi universitari ed è cresciuta con questo rimpianto, vede nell’ottenimento di una laurea l’unica strada possibile per assicurare a suo figlio un futuro dignitoso, diverso dal presente che è costretto, costantemente, a mascherare, essendo stato iscritto da sua madre nella scuola superiore di uno dei sobborghi più ricchi del circondario. Kel è, apparentemente, un vincente: è bello, ha successo con le ragazze ed una promettente carriera nel baseball davanti a sé; tuttavia il ragazzo è non schiacciato dal peso delle aspettative di sua madre, affetta da una serie di malesseri che la portano a trascorrere solo brevi periodi di sobrietà, ma anche dal timore costante di fallire ed dal bisogno di dimostrare a sé stesso e agli altri di potercela fare a reggere il mondo intero sulle sue esili spalle di diciassettenne.
È proprio Charlene a rivelare ad Arthur in una lettera, con diciassette anni di colpevole ritardo, l’esistenza di Kel, cui non aveva mai fatto menzione precedentemente, nella parentesi irreale ed atemporale del loro rapporto epistolare. La donna gliene parla affinché Arthur si assuma l’incarico d’istruire privatamente Kel, di modo che possa migliorare i propri voti ed ambire ad un percorso universitario di successo. Ma anche Arthur ha i suoi segreti: ha infatti nascosto per tutti quegli anni alla donna la sua condizione.

Liz Moore è maestra nel comporre romanzi dalla struttura armonica, dove ogni tassello trovi il suo incastro, senza mai forzare la mano, e tuttavia non ricerca un’infallibilità ed una perfezione che nella vita vera non esistono. I suoi personaggi sono incompleti, fallimentari, manchevoli, in una sola parola: credibili. Sono uomini e donne come se ne incontrano ogni giorno, con le loro fragilità, i loro scheletri nell’armadio. Isole sole in mezzo al mare che, quache volta, per un prodigio del destino, si avvistano all’orizzonte e barattano la propria solitudine con un po’ d’amore e di calore umano, per poi scoprire che è esattamente ciò di cui avevano bisogno.
Centrale, nel primo romanzo di Liz Moore, la tematica del rapporto padre-figlio, l’elemento che più di ogni altro è mancato nella vita di Arthur e di Kel e che ha determinato un rapporto disfunzionale con la vita, la responsabilità e l’altro: in un caso il rifiuto della genitorialità, nell’altro la scelta della carriera e di una nuova famiglia, diversa da quella già costruita, hanno determinato nei figli il ritiro in fragili strategie di auto-tutela che potessero compensare in Arthur l’abbandono, e in Kel l’incognita della propria storia.

L’ultima lettera di Charlene spalanca un universo di possibilità: ignorarla e continuare con la propria vita (o non-vita), o affrontare le conseguenze degli incredibili cambiamenti che possono derivarne. 

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A proposito di Giorgia D'Alessandro

Laureata in Filologia Moderna alla Federico II, docente di Lettere e vera e propria lettrice compulsiva, coltivo da sempre una passione smodata per la parola scritta.

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