Lo scorso maggio è uscito nelle librerie “Il quaderno delle parole perdute“, romanzo d’esordio della scrittrice Pip Williams (traduzione di Stefano Beretta) che sta registrando enorme successo in tutto il mondo. Edito da Garzanti (collana Narratori moderni), nonché ispirato ad una storia vera, il romanzo è un inno al diritto delle donne di dare la propria opinione, la propria voce, la propria essenza alle cose.
Il quaderno delle parole perdute – la sinossi
Siamo ad Oxford, nel periodo che va a cavallo dalla fine dell’Ottocento all’inizio del Novecento. La protagonista del romanzo è Esme, la figlia di uno dei lessicografi impegnati nell’elaborazione dell’Oxford English Dictionary, in quanto seleziona le parole da inserire tra i lemmi. Esme, orfana di madre e legatissima al padre è sempre stata affascinata dalle parole e dal suo lavoro tant’è che ama trascorrere ore ed ore in questo grande edificio, lo “Scriptorium” a vedere il padre selezionare lemmi, nascosta sotto il suo tavolo. Esme, una volta cresciuta, inizia a lavorare allo Scriptorium supportando i lessicografi nelle attività di segreteria e si rende conto che il dizionario che i lessicografi stanno elaborando non prende in considerazione tanti lemmi, frutto della vita quotidiana, magari delle “classi” meno abbienti e molte parole vengono scartate. Il dizionario a cui stava lavorando il padre registrava solo le parole degli uomini e delle classi ricche. Cosi inizia a raccogliere lei le parole scartate, “perdute”.
Esme si rende conto che la lingua non è qualcosa di immutabile che si arricchisce di tutto quello che incontra e tutti contribuiscono a formarla, ricchi, poveri, uomini, donne, bambini. Secondo lei, le parole, registrate nel dizionario, hanno il dovere di rappresentare quest’evoluzione quindi raccogliere tutti i lemmi, compresi quelli più colloquiali che magari le classi ricche non usano. Ma lei faceva parte della classe ricca e, quindi, la sua conoscenza è parziale, pertanto decide di andare al mercato con la sua domestica (Lizzie che per lei è un’amica) per impararle e inserirle nel suo personale “dizionario”.
“Le parole non avevano mai fine. Non avevano fine i loro significati, o i modi in cui erano state usate. La storia di alcune risaliva ad epoche talmente remote che la nostra moderna conoscenza di esse non era niente più che un’eco dell’originale, una deformazione. In precedenza avevo pensato il contrario, che le parole deformi del passato fossero goffi abbozzi di ciò che sarebbero diventate; che le parole formate sulle nostre lingue, nel nostro tempo, fossero vere e complete. Ma mi stavo rendendo conto che, in effetti, tutto quanto veniva dopo quella prima espressione era una corruzione.”
Fonte immagine: Ufficio Stampa