Finalmente in italiano il primo libro della cosiddetta “Trilogia di Copenaghen” di Tove Ditlevsen, Infanzia. Pubblicato da Fazi Editore nell’elegante traduzione di Alessandro Storti, il romanzo autobiografico della grande poetessa danese fu scritto e pubblicato a Copenaghen nel 1967.
Se Karen Blixen è passata alla storia della letteratura per una storia autobiografica quanto quella raccontata nella sua “Fattoria africana”, tradotta in italiano come La mia Africa, quella altrettanto intima e tremenda di Tove Ditlevsen è un’esperienza letteraria ancora tutta da leggere ed apprezzare. Tove nasce a Copenaghen il 14 dicembre 1917 in una famiglia operaia che vive in un modesto bilocale in Hedebygade, nel quartiere di Vesterbro, vicino alla stazione centrale della capitale danese.
Il padre si chiama Ditlev ed è un onesto lavoratore – spesso però disoccupato – e lettore impegnato, il primo a trasmettere alla figlia una passione genuina per i libri, benché le sconsiglierà sin da subito di intenderla come una professione. La madre, Alfrida, è invece una donna difficile, piena di sentimenti inespressi barattati coi silenzi, che ricatta l’affetto dei figli con un mutismo che li addolora. Tove è la più piccola dei due figli di Ditlev e Alfrida: il fratello maggiore si chiama Edvin ed è di quattro anni più grande di Tove, ragazzina bionda, pallida e magra, da tutti ritenuta un po’ strana e diversa per la predilezione piuttosto inusuale e un po’ speciale che ella nutre. Un amore precoce ed autentico per la poesia.
Infanzia di Tove Ditlevsen: la nostra recensione
«L’infanzia è lunga e stretta come una bara, e non si può uscirne da soli»: così scrive Tove a mo’ di incipit del capitolo 6 di Infanzia, un libro che si legge in maniera leggera e scorrevole, anche se nel frattempo si inerpica dentro la mente di ogni lettore e lettrice, che pagina dopo pagina entra nel mondo di Tove e ci si sente a casa, più o meno a suo agio in una realtà svelata senza fronzoli né artifici retorici.
«Dovunque ci si volti, si va a sbattere contro la propria infanzia e ci si fa male, perché è spigolosa e dura, e ci si ferma solo dopo esserne stati completamente lacerati. Sembra che ognuno abbia la propria, del tutto diversa dalle altre. Quella di mio fratello, per esempio, è molto rumorosa, mentre la mia è silenziosa, furtiva, circospetta. Non piace a nessuno, non serve a nessuno. Tutt’a un tratto si allunga a dismisura, e riesco a guardare negli occhi mia madre, quando siamo entrambe in piedi. «Si cresce mentre si dorme», dice lei, perciò di sera cerco di restare sveglia, ma il sonno mi soverchia, e al mattino mi vengono le vertigini ad abbassare lo sguardo sui miei piedi, tanto è cresciuta la distanza che mi separa da loro»: è questo lo stile asciutto di Tove Ditlevsen, reso brillantemente in italiano dal traduttore Alessandro Storti. Infanzia è un libro fondamentale che segna la chiave d’accesso all’universo interiore di Tove.
Tove Ditlevsen in Danimarca non è considerata, “semplicemente”, una poetessa. La sua “Trilogia di Copenaghen” (composta dai tre romanzi “Infanzia”, “Giovinezza” e “Dipendenza”, n.d.R.) è diventato un classico della letteratura danese ben prima che venisse scoperta e apostrofata come tale dal New York Times o recensita dal The Guardian. C’è chi la paragone ad Elena Ferrante, e che rinviene nella Istegade descritta dalla Ditlevsen non pochi punti di contatto con lo “stradone” palcoscenico dell’infanzia di Lila e Lenù, protagoniste assolute de L’amica geniale.
Tove scrive e descrive la sua propria Barndom, Infanzia, a distanza di tempo: nel 1967, mentre è ricoverata nel reparto di Disturbi mentali presso l’ospedale Sct. Hans di Copenaghen, ma i tempi di cui racconta sono gli anni ‘20-‘30 della sua Copenaghen. C’è nella Ditlevsen un’esperienza singolarissima e irriducibile, rispetto alla quale l’autrice resta ben presente come prima persona ineludibile di ciò che ricorda, voce narrante mai troppo distante da ciò che ha vissuto e patito, e che tra le mura di un ospedale psichiatrico trova finalmente una forma compiuta, per quanto spesso ingiusta essa suoni.
La Ditlevsen in Danimarca non fa parte del cosiddetto “kulturkanon”, cioè dell’elenco esclusivo dei letterati di rilievo compilato dal Ministero dell’istruzione, eppure rientra nel programma di letture della scuola dell’obbligo: un destino bizzarro, questo, che però rispecchia l’attaccamento stesso della Ditlevsen per il popolo, unito ad una certa malcelata insofferenza nei riguardi degli strati più alti e imbellettati della società danese. Dal 1956 fino alla morte tenne una rubrica di posta assai seguita, in cui rispondeva alle lettere più curiose dei suoi lettori spesso con consigli di vita e di buona condotta, lei che fece della sua esistenza un ginepraio di contraddizioni e relazioni ingarbugliate di cui alla fine rimase vittima.
Tove si sposò quattro volte e morì nel marzo 1976, a cinquantotto anni, nell’appartamento preso in prestito da un’amica dove si era rifugiata dopo l’ennesima fuga dagli screzi col mondo. Prese un cocktail di barbiturici e si suicidò. Tutta Copenaghen partecipò al suo funerale, e ancora oggi la sua tomba nel cimitero “Vestre Kirkegård” è meta di pellegrinaggio da parte di lettori appassionati provenienti da ogni dove. Rispetto alle avventure in Africa o ai Racconti gotici di Karen Blixen, i libri di memorie di Tove Ditlevsen sono racconti in cui ognuno può riconoscere un pezzetto del passato misterioso del proprio sé tormentato.
Infanzia non è che il primo tomo di una vita che fa fatica ad esso contenuta in una trilogia. Le opere della Ditlevsen sono numerose e varie: libri di memorie, e dunque autobiografici, si alternano a romanzi di finzione, laddove la costante della sua produzione è data proprio dalla poesia, la ricchezza il cui bisogno e potenziale – entro e fuor di metafora – sono racchiusi proprio nella sua Infanzia, quando è una bambina impacciata che nasconde i suoi quaderni dagli occhi indiscreti di chi non potrebbe mai “sentirla”:
«Si ritira e sbatte la porta. Poco dopo, con gran sorpresa, e anche inquietudine, sento uno scroscio di risate dalla stanza. Cosa ci sarà di tanto divertente? Entro e resto impietrita dalla paura. Edvin è seduto sul letto della mamma e ha in mano il mio povero quaderno di poesia. È piegato in due dal ridere. Rossa di vergogna, avanzo di un passo e tendo la mano. «Dammi quel quaderno», dico, battendo un piede a terra. «Non hai diritto di prenderlo!».
«Oh, Dio!», geme lui, sbellicandosi dalle risate. «Questa roba è da sganasciarsi! Sei una cacciaballe patentata! Senti qua!». E legge ad alta voce, tra un accesso di risa e l’altro: […]. «Oooh! Oooh! Ah ah!». Si getta sulla schiena e continua a ridere, mentre io piango fiumi di lacrime».
Proprio per questo Infanzia è una pietra miliare per chi vuole leggere una nuova, indimenticabile autrice e prepararsi a darle un posto d’onore nella propria biblioteca: è durante la sua Infanzia, finalmente pubblicata in edizione italiana, che Tove Ditlevsen si rende conto, ancora in veste dubitativa, di chi è e di chi vorrà, risolutamente, diventare. Come intitolerà una raccolta poetica qualche anno più tardi: Vorrei essere vedova e vorrei essere poeta. “Vedova”, perché non c’è bisogno di alcun uomo per affermare la propria identità, benché il fatto di aver avuto un marito o più di uno ben si confaccia alla curiosità di qualsiasi donna. “Poeta”, e non necessariamente “poetessa”, perché la poesia oltrepassa i generi di chi la scrive per arrivare dritta e fermissima, come una freccia che centra il bersaglio, al cuore di chi la legge.
Come ha brillantemente scritto l’intellettuale femminista tedesca Emilia Von Senger, riconoscendo anch’ella in Tove Ditlevsen la Elena Ferrante poetica di Copenaghen, fiera del proprio nome e cognome: «Ciò che autrici come Annie Ernaux stanno facendo oggi, Tove Ditlevsen l’ha fatto più di cinquant’anni fa. Scrittura autobiografica a cui inchinarsi. Finalmente, finalmente!».
Fonte immagine: Ufficio Stampa Fazi Editore