Il romanzo La farfalla nell’uragano di Walter Lucius, edito da Marsilio Editore (Venezia, 2017), rappresenta il primo episodio di una trilogia (Heartland Trilogy – in Olanda è già stato pubblicato il secondo volume, Schaduwvechters) ambientata tra Amsterdam, Johannesburg e Mosca: ha vinto lo Schaduwprijs, attribuito nei Paesi Bassi al miglior romanzo poliziesco, ma ben presto ci si rende conto che è molto più di questo.
Commento “a caldo”
Complicato. Intricato. Bellissimo.
Circolare, ma non chiuso. Autentico.
Vero, come la Storia che dal fondo viene alla ribalta e le stesse persone, più che personaggi, presenti nel romanzo. Storia purtroppo familiare, tra loschi affari e ancor più loschi figuri, istituzioni corrotte, degenerazioni xenofobe e manipolazioni populiste.
Appena letto l’ultimo rigo, sono queste le prime parole che mi sono venute in mente: complicato e bellissimo. Affiorata dalla lettura ininterrotta come da una lunga apnea, è stato come essere appena ritornata da un ultraveloce giro intorno al mondo, la cui colonna sonora è un infinito telegiornale internazionale.
La trama de La farfalla nell’uragano
Come si può leggere dalla quarta di copertina: “Nella vita irrequieta di Farah Hafez, brillante reporter dell’Algemeen Nederlands Dagblad, ci sono due punti fermi: il primo è il giornalismo, il secondo è il pencak silat, arte marziale di origine indonesiana che Farah ha appreso dal padre quando viveva a Kabul, prima che arrivasse la guerra e prima di trovare rifugio, ancora bambina, ad Amsterdam.
Ormai cittadina dei Paesi Bassi, Farah non ha mai smesso di praticare la nobile arte dei guerrieri di Sumatra, ed è proprio l’esito di un combattimento a far sì che lei si trovi all’ospedale nel momento in cui un bambino dai tratti mediorientali, vittima di un pirata della strada, viene trasportato d’urgenza in sala operatoria. Porta gioielli e campanellini e indossa un abito tradizionale che subito attira l’attenzione della giornalista. Quando le sue labbra formano una parola che nessuno intorno è in grado di capire, Farah riconosce la lingua della propria infanzia, e si rende conto che quell’abbigliamento appartiene a uno dei rituali più detestabili praticati in Afghanistan.
Cosa può aver spinto quel bambino tra i boschi intorno alla capitale olandese? È l’inizio di un’indagine ad alto rischio verso il cuore di una potente organizzazione criminale che da Mosca attraversa l’Europa e si estende fino a Johannesburg, alimentata dalla smisurata corruzione che dilaga negli ambienti politici e finanziari. L’ostinata volontà di fare luce sulla drammatica vicenda del piccolo afghano porterà Farah a un duro confronto con un passato che credeva di essersi lasciata alle spalle, e che l’aveva quasi uccisa.”
La parola che il bambino pronuncia è Padar. Padre. E la pronuncia in lingua dari, nome ufficiale dato in Afghanistan alla lingua persiana. E il rituale a cui è stato sottoposto il bambino è il bacha bazi: «tradotto letteralmente, giocare con i maschietti» spiega Farah stessa.
È l’inizio non solo di un’indagine volta a trovare i pirati della strada, ma anche di un percorso identitario che porterà la protagonista, dalla riesumazione dei fantasmi del passato, a una nuova coscienza e affermazione di sé.
Sebbene rientri nel genere poliziesco, La farfalla nell’uragano si può definire un libro di cronaca, e non soltanto perché la protagonista è una giornalista, anche se “non particolarmente brava”, come si legge nel romanzo stesso.
Il romanzo scava più a fondo: ci svela i meccanismi diffamatori a cui fa ricorso il giornalismo più becero e arrivista al servizio di una politica sempre meno popolare e sempre più populista.
Troviamo la stampa indipendente tutelata dallo stesso regime, che così può continuare a definirsi democratico. Troviamo la diplomazia connivente nei confronti di criminali internazionali. E troviamo anche i russi cattivi, gli africani vittime, gli orientali saggi e gli europei, in questo caso gli olandesi, ipocriti. In un perfetto mix tra topoi letterari caratteristici del genere e clichés giornalistici dei giorni nostri. Ci sono tutti. O quasi.
L’unico grande assente è solo il pencak silat: descritto come uno dei due punti fermi della vita di Farah, è piuttosto una presenza funzionale, a inizio e a fine romanzo. L’arte marziale indonesiana costituisce un simbolo del legame che la giovane donna ha con il defunto padre, suo maestro.
In verità, l’altro cardine del romanzo, oltre all’indagine/inchiesta, è il viaggio: Amsterdam, Kabul, Johannesburg, Mosca. E un personaggio che vuole intraprendere il suo “giro del mondo”, denominato emblematicamente progetto Verne. È una lettura che stimola i sensi con sapori, odori e rumori provenienti da diversi angoli del mondo.
Il libro supera le seicento pagine ma riesce a tenere l’attenzione del lettore dalla prima all’ultima parola, e non soltanto per la trama avvincente e a tratti rocambolesca.
L’autore fa sfoggio di uno stile brillante costituito da frasi brevi e incisive, descrizioni essenziali e dialoghi serrati: sono i personaggi a presentare se stessi attraverso quello che dicono e come lo dicono.
Con incredibile maestria, Lucius, pur mantenendo il narratore esterno, riesce a raccontare ogni vicenda attraverso più punti di vista, a seconda del punto di osservazione prescelto. Il risultato appare come un quadro impressionista il cui soggetto è possibile comprendere e apprezzare appieno solo se ci si pone a una certa distanza dal quadro.
Forse, la farfalla del titolo non è solo la nostra Farah, ma ogni singolo lettore, che si trova, volente o nolente, nell’occhio dell’uragano di questa realtà così complessa eppure bellissima.
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