Incontriamo Paolo Ganz, musicista, cantante e scrittore. Pioniere dell’armonica blues e primo a realizzare manuali di didattica in italiano per il suo strumento, a partire dagli anni Ottanta è salito su centinaia di palchi in Italia, Germania, Irlanda, Francia, Spagna e Svizzera. Ha inoltre scritto su prestigiose riviste di settore e realizzato colonne sonore che possono riascoltarsi, tra l’altro, in diversi film diretti da Francesco Nuti e da Ferzan Özpetek. Autore di splendidi volumi, ricchi di poesia, come L’estate rubata di Théo Nicholao.
Paolo Ganz | L’intervista
Caro Paolo, la tua è una vita nel segno del blues, come recita il titolo di un tuo ormai introvabile volume del 2006. A distanza di anni dalla pubblicazione di quel che potremmo chiamare un ‘diario in dodici battute’, che cosa ha resistito alla furia del tempo?
La passione, su tutto la passione, che è qualcosa che – se è vera – resiste a qualsiasi insidia, esterna e anche interna. Resiste alla visione del mondo che cambia, in ambito musicale e non solo, alla stanchezza, alla triste minor possibilità (e voglia) di esibirsi; all’incuria di pubblici disattenti e non più così affezionati al Blues. E la passione rimane come incessante dialogo con se stessi, e non è poco.
Nel corso delle tue esperienze umane e professionali, hai fronteggiato l’imprevedibile come un audace marinaio alle prese con un mare capriccioso. Qual è stata la tua bussola e quale il tuo faro?
Il tentativo, quasi sempre riuscito, di portare la mia musica – il Blues – altrove, anche dove non era di casa. E di fare sempre uno spettacolo all’altezza, da solo o con le mie tante band. Tutto per rispetto a questa musica meravigliosa e umana.
I primi grandi maestri dell’armonica blues appartengono ad un mondo lontano dal nostro, sospinti da privazioni e poi, finalmente, acclamati da un pubblico via via più aperto, ampio ed ormai in gran parte libero da pregiudizi secolari. Tra di essi hai scelto quale tua guida Sonny Boy Williamson II, uno dei bluesmen più affascinanti e misteriosi dell’eletta schiera: quando e come lo hai scoperto?
Sonny Boy (Aleck Rice Miller) è per me una vera passione, una guida nel mondo del Blues. Quando ho iniziato si parlava soprattutto di Little Walter, Sonny Terry e i due Sonny Boy, poco altro, quindi era logico esplorare il loro lavoro e la loro tecnica, cosa non facile per la difficoltà di reperire i vinili. Spesso era necessario fare incursioni in altre città dove esistevano negozi specializzati. Tra questi Sonny Boy Williamson spiccava, oltre che per l’abilità tecnica, anche per la profondità della voce e la ricchezza poetica dei testi. Per me era un dato importante. All’epoca – parliamo dell’inizio degli anni ‘80 – la mia band comprendeva una sezione ritmica e un pianista; io suonavo armonica e chitarra. Un giorno, ascoltando le ultime registrazioni di Sonny Boy, quelle incise a Copenaghen, considerai che lui non suonava la chitarra, ma solo l’armonica, anzi molto spesso si esibiva in completa solitudine, armonica e voce. Abbandonai del tutto la chitarra per dedicarmi alle ance. Da quei la passione per il suo minimalismo strumentale. È la storia dell’armonica: meno c’è a livello strumentale, più deve esserci a livello di poesia.
Paolo Ganz, i tuoi Metodi per Armonica Blues restano un caso editoriale nella storia della didattica musicale, oltre che un primo, riuscitissimo esperimento per avvicinare gli aspiranti musicisti a questo piccolo strumento colmo di meraviglie. Tra quelle pagine ci sono cura, passione e voglia di condividere… Ma c’è un episodio particolarmente significativo, nella tua vita di artista, che non ha trovato spazio tra i tuoi dischi né tra i tuoi libri e che, tuttavia, ti capita di raccontare volentieri dalla viva voce?
Di fatti curiosi ce ne sono stati tanti, lo si può immaginare, e molti sono stati raccolti in Nel Nome del Blues e in Armonicomio. Mi diverte ricordare che parecchi anni fa – mi trovavo a Roma per una trasmissione – regalai un’armonica alla piccola figlia del proprietario dell’hotel in cui alloggiavo. Scoprii poi che la madre, forse temendo che fosse infetta (con i musicisti non si sa mai!), gliela faceva suonare usando l’aspirapolvere!
La tua musica non è fatta di solo blues: la tua voce e la tua armonica hanno spesso sperimentato diversi percorsi espressivi, ricchi di riferimenti colti e popolari, delineando scenari poetici attraverso strutture tutt’altro che canoniche, con suoni evocativi di atmosfere a te molto care. Quando e come hai avvertito l’esigenza di spingerti oltre i confini tradizionali della Musica del Diavolo?
È accaduto per questioni di lavoro, e tutto iniziato quando è partita la mia collaborazione con grandi produzioni cinematografiche (De Laurentis – Cecchi Gori) e poi dall’affiancare in studio artisti di estrazione non-Blues. È stata una scuola molto importante che mi ha insegnato molto. Al centro c’è la musica, non si discute, e si deve lavorare a favore di essa. Questo significa che, a volte, può essere necessaria anche una sola nota. Basta che sia quella giusta.
Rispetto ai tuoi inizi, la sensibilità sociale è palesemente cambiata, ed altrettanto inedito è oggi il modo di fruire della musica, spesso distratto al punto da trasformarla in mero sottofondo. Possono gli attuali servizi di streaming formare degli autentici, nuovi ascoltatori?
Tutto va bene, purché si conservi lo spirito della ricerca e della poesia. Aver tutto a portata di mano non credo giovi così come si crede alla formazione musicale. Ai miei tempi – sembra un discorso da vecchi ma è così – si faticava a trovare un disco, ad esempio, e quando questo arrivava… tutto il mondo era lì! Lo si ascoltava, studiava, analizzava, si imparavano a memoria testi e note di copertina. Questa è stata una scuola, di vita e di poesia.
La scrittura è tra i tuoi indiscussi talenti. Ci hai regalato opere sincere, storie insieme crude e poetiche, tra le cui pagine è evidente il desiderio di raccontare per puro amore del racconto. Il tuo celebre Armonicomio – altra bellissima narrazione di vita e di musica vissuta – non fa eccezione. Quale tra i tuoi libri senti più tuo e quale dunque consiglieresti ad un nuovo lettore per meglio conoscerti?
Sono tutti mie figli, come si dice: di qualcuno sono più orgoglioso, qualche altro vorrei avere la possibilità di rivederlo con senno del poi. La mia produzione è abbastanza vasta: romanzi, libri di viaggio, saggi e addirittura un libro dedicato al gatto mediterraneo (L’istinto del gatto mediterraneo) di cui sono particolarmente felice. Mi pare che non ci sia che l’imbarazzo della scelta. Con Le Storie dell’Isola poi, l’ultimo nato pubblicato a Amazon, sono riuscito ancora una volta a mettere assieme letteratura, Blues e… Sonny Boy.
Paolo Ganz, ti abbiamo ascoltato in una recente intervista sul canale YouTube di Easyharp del tuo amico e collega Paolo Demontis, nella quale occasione hai parlato della necessità di avvicinarsi al pubblico con naturalezza, umiltà e sacrosanta fatica: è così che accade anche per la proposta di un nuovo libro?
Sono cose molto diverse. Nel concerto – dal momento che parliamo di Blues, musica non particolarmente frequentata dal pubblico italiano – c’è bisogno di essere un poco ruffiani, di invitare la gente all’ascolto, dare qualche traccia da seguire per “entrare” nello spirito della musica afroamericana. Per quanto riguarda i libri sono molto meno disponibile: il libro è quello, un distillato di ore di studio e applicazione totale che poi viene chiuso nella sua copertina e non si può più modificare. Tutti possono leggerlo, ma chi capisce capisce: non è più un problema mio.
Nella nostra epoca liquida, frenetica e animata da stimoli in sordina, cosa è ancora, veramente blues?
La passione e l’amore, l’impegno nel lavoro quotidiano – qualsiasi esso sia – la cocciutaggine con cui si cerca di arrivare alla nostra meta; perché ognuno ne ha una, o così dovrebbe essere.
Immagine in evidenza di Paolo Ganz: Ufficio stampa