Presentato il 10 aprile a laFeltrinelli di Piazza dei Martiri a Napoli, Salva con nome è il nuovo libro di Pietro Treccagnoli
Con lo scrittore e giornalista Pietro Traccagnoli si inaugura una nuova collana della Alessandro Polidoro Editore. I MiniPerkins sono piccoli gioielli, come i racconti meravigliosi contenuti in Salva con nome. In copertina, oltre alle inconfondibili bande nere, identità grafica forte della casa editrice napoletana, uno sfondo azzurro Napoli su cui si staglia un castello fiammante, simbolo della focosa napoletanità condensata in questo piccolo ma profondo volume.
Pietro Treccagnoli non credeva avrebbe pubblicato il materiale grezzo poi confluito in Salva con nome. I racconti qui raccolti sono per lui come le carte d’autore che si ritrovano postume in bauli impolverati o nelle cartelle virtuali sul desktop. Sono testi sparsi, frammenti di un’esperienza letteraria inediti o precedentemente impressi sui fogli de Il Mattino, giornale che lo ha visto attivo protagonista per circa un quarantennio.
Il senso del postumo. Fabrizio Coscia, critico letterario e lettore di Pietro Treccagnoli, coglie un senso profondo nella disomogeneità di questa raccolta in frammenti, un grumo di verità. Salva con nome è un libro personale, intimo, più che per i riferimenti biografici, per il manifesto della sua concezione della scrittura. Salvare con nome è il suo gesto principale: associato ai file del computer, corrisponde più profondamente al nominare le cose e le persone. Dare un nome comporta un’evocazione, una materializzazione, e così un fissaggio nella memoria di ciò che si indica con il verbo.
Tramite la soluzione dell’autofiction, gioco letterario e verità biografica godono di vita attiva nei racconti di Pietro Treccagnoli. Un romanzo familiare mai scritto ma snocciolato nei frammenti di Salva con nome, fino alla consapevolezza della necessaria vecchiaia. Una consapevolezza improvvisa, che si connette ancora al desiderio di imprimersi nella memoria di chi verrà. Il percorso di questa coscienza al tramonto si apre con un racconto sulla figura materna, intrecciata alla storia della sua lingua madre, il napoletano, e ai racconti così trasmessi, nel pieno gusto dell’oralità. La madre è associata all’elemento nutritivo e al racconto, binomio essenziale e programmatico della vicenda letteraria di Pietro Treccagnoli.
Salva con nome si chiude nel nome del padre, associato questa volta al silenzio, al raccoglimento, e all’amnesia. Insieme alle figure dei genitori, le dramatis personae della famiglia Treccagnoli, gli zii e il nonno. La storia personale è però intrecciata inesorabilmente a quella di Napoli, che sia quella di un mistico atavismo o la città novecentesca ai tempi della guerra. In questa cornice si muovono gli avi contadini, personaggi del mondo fatato della sua infanzia. L’oralità, tradotta in racconto, consente il recupero del tempo perduto, di un mondo scomparso che proustianamente diventa un tempo infine ritrovato per il tramite della memoria.
Raccontare per Pietro Treccagnoli
Salva con nome è una resa dei conti con i fantasmi del passato. L’immediatezza della forma breve di Pietro Treccagnoli consente incontri prima d’ora impossibili, a partire da quello con il padre. Proprio dall’assenza, dalla morte, attinge la sua autorità. Ripercorre il quadro variopinto della memoria con racconti intensi, potenti, facendo rivivere le cose al solo nominarle. Il senso vero della narrazione, afferma Treccagnoli, è quello dell’espressione, del divertimento, soffermarsi sull’essenziale, restituendo la vita in un racconto.
Carolina Borrelli
Un close reading di Salva con nome
Salva con nome, titolo del nuovo libro di Pietro Treccagnoli, inaugura una nuova collana della Alessandro Polidoro Editore, i MiniPerkins. Una raccolta di testi sparsi mescolati a falsa autobiografia, in gran parte inediti, pubblicati come le carte d’autore che si trovano postume in bauli impolverati o nelle cartelle del desktop “salvate con nome”. Treccagnoli, attraverso una consapevole azione di scavo, fruga nella sua eredità segreta e incompiuta osando essere postumo in vita, scrivendo un libro personale, intimo, più che per i riferimenti biografici, per il coraggio che implica la sua concezione di scrittura.
Salvare con nome significa nominare le cose e le persone, evocare, fissare nella memoria, snodare quell’ingorgo nel quale si resta intrappolati, vittime del tempo perduto e prigionieri della vita che va. Un vecchio e una vecchia, un orco, un santo, un Kobra sono solo alcuni dei protagonisti dei testi narrativi di Salva con nome, scritti negli anni quasi ad accompagnare l’attività giornalistica a “Il Mattino” e segnati da una scrittura colta che si lega al ceppo di Giambattista Basile de Lo cunto de li cunti. Infatti la storia familiare di Pietro Treccagnoli si intreccia inesorabilmente a quella di Napoli, atavicamente descritta come la città della camorra e della monnezza in cui «stanne uno ‘ncuollo a n’ato, non trovano un buco per parcheggiare e li rapinano a notte a notte» o esaltata attraverso il meraviglioso legame tra sacro e profano, che qui, e solo qui, si fondono in un sinodo perfetto.
In un mondo contadino, dove il poeta Esenin aveva cantato l’ottobre della Rivoluzione Russa, si snodano i personaggi del mondo arcadico della sua infanzia. Visioni, suggestioni in una trama di ricordi che si srotolano senza un apparente filo conduttore: è il percorso drammatico delle età della vita che declinano e la scoperta della sostanziale inefficacia dei meccanismi difensivi che si possono allestire per evitarlo.
Treccagnoli per “salvare davvero con nome” deve intraprendere un’azione di scavo, che parte dallo specchio di Alice intravisto nella casa dei nonni in un mondo contadino all’apparenza popolato di favole e orchi, per poi andare alla scoperta dei miti che lo accompagnano, come il San Gennaro reso umano da Nicola Punziano, protagonista di uno dei racconti più forti del libro. «Nicola rendimi uomo, uomo fra tanti, napoletano fra tanti», gli dice San Gennaro, che nella mente del cartapistaro «doveva esprimere il dolore del martire, ma pure il sorriso e la pacata felicità di chi è nell’eterno, e ancora la preoccupazione di chi si spende e si spenderà per la propria città fino alla fine dei tempi, fermando la lava del Vesuvio e il morbo invisibile, quello che appesta i fondaci e i palazzi, trascinando donne, uomini, vecchi e bambini nel rivo funesto del “chiavicone”».
Per poi seguire le linee familiari delle origini – il nonno Pietro, la nonna che faceva lo stesso lavoro di Filumena Marturano, lo zio Luigi – e di personaggi che lo circondano come Domenico Maggiore, meccanico di Ponticelli fiero di aver scelto la periferia a quella zella presuntuosa di Napoli, passando poi per le canzoni allusive degli anni Ottanta, i tormentoni-oni-oni che erano destinati al declino, al sonno carsico.
Fino all’ultimo nome da salvare, il padre Gennaro, conosciuto troppo poco, del quale è rimasto solo un apriscatole nazista, poi scomparso, come se avesse esaurito il suo compito di monito contro la banalità del male. Gennaro è il protagonista incompiuto e lasciato sull’icona del desktop fino all’arrivo di Josip, che dagli Urali giunge a Napoli per chiedere di suo padre, anzi, del padre di entrambi. E con Josip, anche l’autore decide, e ne comprende l’urgenza, di mettersi alla ricerca di quei pezzi del puzzle della vita che con fatica si prova a comporre. Salva con nome si chiude nel nome del padre, con le foto che lo vedono soldato in Russia e i cocci sparsi dei suoi ricordi confusi.
«Il mondo dell’infanzia può far ammalare», questa è la verità, questo emerge dalle pagine e pagine di appunti sparsi, fogli di quaderno o cartelle di file, scritti per essere dimenticati, riposti nei cassetti più remoti dell’anima, prima di Josip e il suo silenzio, dei suoi occhi intensi che cercavano un padre. Il traguardo è la scoperta del tempo, del proprio tempo, della vecchiaia, improvvisa, disarmante, ma consapevole.
Ci si ritrova all’improvviso a guardarsi in uno specchio e ritrovarsi così cambiati, a prendere consapevolezza che si è imboccata la strada del ritorno. È la coscienza del tramonto, l’attimo in cui ci si ferma a guardare il sole che cala all’orizzonte, il giorno che finisce e «io non sarò più giovane», diceva il poeta contadino. Siamo alla resa dei conti, dove è possibile ripercorrere il quadro variopinto della propria memoria, cercando di recuperare i cocci e ricordare, come dice Esenin, che «se qui al mondo soffrire si può, c’è ragione però di sorridere».
Valentina Bonavolontà