PIF e il suo primo romanzo «…che Dio perdona a tutti» | Intervista

PIF e il suo primo romanzo «...che Dio perdona a tutti» | Intervista

Intervista/recensione a PIF per l’uscita del suo primo romanzo, “…che Dio perdona a tutti”

Esilarante debutto letterario per Pierfrancesco Diliberto, meglio conosciuto come PIF : regista, attore, autore televisivo, conduttore radiofonico, sceneggiatore, che si guarda bene dal definirsi “scrittore”.

«…che Dio perdona a tutti» è un romanzo appena uscito per Feltrinelli e già si candida a diventare un curioso caso editoriale.

Scopriamo perché con un’intervista/recensione al suo scoppiettante autore, PIF.

«Il cristianesimo è oggi difeso e continuerà per lungo tempo a venir difeso così strenuamente perché è diventato la religione più comoda. È ancora cristiano tutto ciò che si chiama così? O, ponendo la domanda in forma più estesa e insieme più problematica: che cosa, nella nostra vita presente, è ancora veramente cristiano, e che cosa, invece, si chiama così solo per abitudine o per timore?». Righe tanto serrate, assertive, disincantate, le ha scritte un grande filosofo, poi passato alla storia come “anticristiano”, e fanno parte dei suoi “Frammenti postumi”. Sorride, PIF, sentendosi citare Friedrich Nietzsche, ma torna subito serio quando ascolta l’aforisma più asciutto secondo il quale «è esistito un solo cristiano ed è morto sulla croce». Il tuo romanzo affronta con sorniona leggerezza un tema profondo e sfaccettato come il cristianesimo: com’è nato e cosa rappresenta per te?

È un esame di coscienza, un po’ come andare dall’analista o scrivere un diario: sono partito da un mio disagio e a un certo punto ho capito che non potevo dirmi cristiano ma nemmeno potevo definirmi ateo. Non credevo ma speravo. L’idea mi venne sotto la doccia, tre o quattro anni fa. Alzai la cornetta e dissi al mio produttore: «Ho un film!». È liberatorio, per chi è abituato a scrivere sceneggiature, misurarsi invece con un romanzo. Feltrinelli mi aveva proposto un soggetto a mia scelta e mi venne quest’idea. Poi l’abbiamo sospesa per vari impegni sopraggiunti e, quando l’ho ripresa, la domanda che si poneva il film (sic!) era ancora attuale e quindi l’ho messa su carta: cosa succede se decidiamo di vivere da cristiani? È stato un processo lento, ma l’ho fatto per onestà. Una lettrice importante è stata mia sorella: è lei la vera scrittrice di famiglia.  

Il protagonista del tuo romanzo, PIF, si chiama Arturo, ha trentacinque anni e fa l’agente immobiliare a Palermo. Conduce un’esistenza piuttosto incolore, vive alla giornata, o meglio, a differenza di tanti che si accontentano di campare alla meno peggio, piano piano scopre che quella non è vita, ma pavida – e spesso ipocrita – sopravvivenza. Capisce che alle parole che si dicono, o soltanto si proclamano, non corrispondono i fatti che le rispecchiano. Che non si è ciò che si dichiara di essere, se non si pratica ogni giorno, nel concreto, ciò che è altrimenti fin troppo facile asserire, in astratto. La pietra d’inciampo di Arturo si chiama Flora: è una ragazza che un giorno vede in pasticceria e di cui subito si innamora. La grande passione di Arturo è una prelibatezza culinaria: la ricotta, nelle varie forme contemplate dello sciù, dell’iris al forno o del cannolo e Flora è la figlia di un rinomato pasticciere. Quanto PIF c’è in Arturo?

In gran parte c’è. Banalmente: la passione per la ricotta, il fatto di essere di Palermo, single a oltranza, o che anch’io a calcio giocavo come portiere. Però no: non è autobiografico. Anche se le domande che si è posto Arturo me le sono poste anch’io. Sono andato a scuola dai Salesiani: ci facevano leggere anche Pasolini o i libri di Enzo Biagi. Questo per dire che non rinnego la mia formazione e che anzi ritengo don Bosco, loro padre fondatore, un grande educatore. Al terzo anno fui buttato fuori e il direttore diede a mio padre una strana motivazione: “Noi formiamo i manager del futuro”. Questo libro l’ho scritto anche un po’ per colpa sua. Spesso il miglior insegnamento te lo dà il peggior esempio, quello che ti fa dire: «Non voglio essere come lui». Quel direttore era un prete che non aveva capito niente di don Bosco, che invece, di suo, accoglieva proprio chi era fuori da ogni management. Per una puntata de “Il Testimone”, su MTV, conobbi don Marco Pozza, chiamato anche “don Spritz”, famoso perché, vedendo le chiese vuote, decise di spostarsi lui nei locali della “movida” padovana, soprattutto all’ora dell’aperitivo. Grazie a lui ho incontrato il Papa, non a un’udienza privata ma con altre persone. Fummo tutti presentati come atei, al che io dissi subito la verità: «Santità, io non sono ateo, ho fatto i Salesiani. Sono agnostico». E lui mi chiese: «E sei diventato agnostico perché hai frequentato i Salesiani?». Si abbassò subito alla mia altezza. Era interessato a ognuna delle nostre risposte, ci ascoltava. Fu davanti a lui, il “megafono” di Dio sulla terra, che mi venne la domanda: «Ma è lui che si abbassa a noi o siamo noi che, almeno potenzialmente, possiamo innalzarci al suo livello?». È per questo che anche San Francesco mi mette in crisi: perché ha fatto quello che tutti noi possiamo fare ma che è il compito più impegnativo per ogni cristiano, davvero difficile da realizzare.

«…che Dio perdona a tutti». Il titolo già in sé è uno spasso e uno sfottò. In fondo vuole ironizzare sul grande difetto italiano secondo cui basta mostrarsi pentiti – “pagare per i propri errori” – e tutto viene perdonato?

È un detto siciliano che può suonare un po’ blasfemo: “Futti futti, che Dio perdona a tutti”. Ho omesso la prima parte perché sai com’è, nel dirlo al Papa o alle Paoline avrei avuto qualche titubanza ma per me è la sintesi di come gli italiani vivono la religione cristiana. Arturo non fa niente di speciale: dice la verità. Ma c’è un che di paradossale. Flora è molto religiosa e si accorge che lui non lo è. Allora davanti al calendario di Frate Indovino gli viene un’idea: sarà un cattolico ineccepibile per tre settimane. È una piccola rivoluzione che decide di fare per amore. All’inizio è una provocazione, poi ci prende gusto e applica i precetti anche in famiglia, nella coppia, a calcio, nel lavoro. Se sei cristiano dici la verità, sempre. È troppo facile fare – come dice Papa Francesco – “i cristiani da salotto”.

Kierkegaard li chiama i “cristiani della domenica”, perché ai suoi tempi i fedeli portavano anche i vestiti migliori, quelli riservati alle grandi occasioni. Dai suoi tempi ai nostri è cambiato ben poco: la religione è pura facciata per te, PIF?

Non bisogna allontanarsi da Dio perché la Chiesa è corrotta: è la cosa più sbagliata. Però bisogna farsi più domande. Io stesso mi sono allontanato perché vedevo che andavo in automatico: non credevo. La maggior parte degli italiani vive così: essere cristiani è una cosa più culturale che religiosa, passiva, un’ovvietà automatica, data per scontata. Arturo fa questa provocazione senza nemmeno applicarsi troppo: non è che va a studiarsi i testi sacri, anzi, parte malissimo! Ruba un libretto del catechismo al figlio di un suo amico che ha appena fatto la comunione! È una conversione che comincia con un furto ma è tutta la sua vita che cambia, in quelle tre settimane piene di domande, vissute con onestà. Perché è facile dire di essere cristiani ma onestamente, chi di noi veramente lo è? Io non volevo vivere il cristianesimo come uno sport, o un hobby da praticare nel tempo libero, e il romanzo pone proprio questa questione: quanto siamo cristiani noi?

Benedetto Croce ha scritto un saggio famoso: «Perché non possiamo non dirci cristiani». Nel romanzo, PIF, c’è una critica ironica e sottile a chi chiama in causa le cosiddette “radici cristiane” solo all’occorrenza, per riempirsi la bocca della solennità dell’espressione.

Le due citazioni in esergo sono di Alfano e Salvini. Il Papa aveva detto a un Angelus che la Chiesa è accoglienza e un politico che si professa cristiano dovrebbe credergli e applicare la sua parola. Invece Alfano un giorno dichiarò: «Facciamo un mestiere diverso da quello della Chiesa» e Salvini, più di recente: «Il vescovo fa il vescovo e non rompe le palle ai sindaci e a chi amministra le sue città». Per carità, è legittimo, però non giurare sul Vangelo, se non lo hai letto! Certe dichiarazioni sono una bestemmia per un politico cristiano. Non puoi proclamare a gran voce una cosa e poi farne un’altra, che spesso è l’opposto. Allora scegli: o sei cristiano o non lo sei, ma non dirti cristiano se poi fai cose non cristiane. C’è bisogno di umanità, di legalità. C’è una frase di don Marco che io ho fatto molto mia: l’ho “piffizzata”. «Io non so se riuscirò a cambiare il mondo ma di sicuro questo mondo non cambierà me». Mi piace perché è la frase di un sognatore con i piedi per terra.

Prossimamente uscirà il film tratto dal romanzo di Francesco Piccolo, “Momenti di trascurabile felicità”, in cui per la prima volta fai l’attore e non anche il regista. Quanto trascurabilmente è felice PIF?

Di base sono felice, poi ho le mie ansie, le mie crisi, i miei sensi di colpa. Sono il re dei sensi di colpa. Il successo lavorativo ha un po’ compensato il fatto io non sia “sistemato”, come si suol dire. Potevo fare l’assicuratore a Frosinone, invece ho rischiato, ho creduto in quello che sentivo di voler fare nella vita, ho fatto una scelta scomoda, perché il successo non era affatto garantito, anzi…

Ti sei quindi ribellato anche tu ad un percorso già tracciato… Per te ribellarsi è un atto rivoluzionario? Credi in chi fa una rivoluzione per amore?

Il rivoluzionario è sempre spinto da un sentimento forte e l’amore lo è. Certo, ci deve essere una dimensione corale del sentimento: fare la rivoluzione da soli non serve a niente. Bisogna combattere per qualcosa in cui si crede, che non si può fare a meno di dire. Spesso le grandi rivoluzioni sono nate da gesti piccoli. Pensa a Rosa Parks. Non si alzò dal posto in autobus non perché era stanca o perché le facevano male le gambe. Non si alzò perché non era giusto cedere il posto a un bianco. «Non devi mai avere paura di quello che stai facendo, quando è giusto»: lo ha detto Rosa Parks e anch’io ci credo. E il suo posto su quell’autobus, oggi, è in un museo. Ho un mio Vangelo laico, dove c’è una frase meravigliosa di San Francesco: «Predicate il Vangelo e, se necessario, anche con le parole». Quando l’ho letta la prima volta, mi sono commosso. All’inizio chi dice la verità viene isolato ed emarginato, persino Arturo a un certo punto resta “cristianamente solo”, abbandonato anche dai suoi compagni di squadra al campo di calcetto. Ma se si crede in una cosa ma se ne vede un’altra e qualcosa non quadra, allora bisogna indagare, chiedersi perché e non accettare tutto per oro colato né dare niente per scontato. Allora sì che è giusto ribellarsi. È così che si va oltre. …Quale era la domanda?…

PIF e il suo romanzo “…che Dio perdona a tutti”

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Autore:CLAUDIO ONORATI
Copyright:ANSA
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A proposito di Giulia Longo

Napolide di Napoli, Laurea in Filosofia "Federico II", PhD al "Søren Kierkegaard Research Centre" di Copenaghen. Traduttrice ed interprete danese/italiano. Amo scrivere e pensare (soprattutto in riva al mare); le mie passioni sono il cinema, l'arte e la filosofia. Abito tra Napoli e Copenaghen. Spazio dalla mafia alla poesia.

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