La madre di Grazia Deledda, la recensione
Alessandro Polidoro Editore ripubblica La madre, uno dei più bei romanzi dell’autrice sarda Premio Nobel per la Letteratura nel 1926 Grazia Deledda, insignita del premio “per la sua ispirazione idealistica, scritta con raffigurazioni di plastica chiarezza della vita della sua isola nativa, con profonda comprensione degli umani problemi”.
L’autrice di Canne al vento (1913) e Elias Portolu (1903) è stata la prima – ed attualmente ancora l’unica – autrice italiana a ricevere il prestigioso titolo, e la seconda donna nella storia del Premio Nobel per la Letteratura. In occasione del centocinquantesimo della sua nascita, la casa editrice pubblica una nuova edizione del romanzo, con la prefazione di Veronica Galletta e la postfazione di David H. Lawrence, l’autore de L’amante di Lady Chatterley, apparsa nella prima edizione di The mother (1923).
Trama de La madre di Grazia Deledda
Al centro delle vicende del romanzo, il rapporto tra Maria Maddalena, un’anziana serva, indurita dal lavoro e dalla sofferenza, che ha riposto tutte le sue speranze ed il suo desiderio di riscatto nella carriera ecclesiastica del giovane figlio Paulo, sacerdote del parrocchia di Aar, paese immaginario, e Paulo, un giovane che è stato guidato dalla madre nelle sue scelte e ha abbracciato la fede non, semplicemente, per compiacerla, né per reale vocazione, ma perché convinto intimamente che servire Dio e ricompensare col proprio sacrificio quelli di sua madre sia la più alta forma di amore filiale. Quando la donna scopre l’amore, tutto sensuale e terreno, tra il figlio e la giovane parrocchiana Agnese, la sua anima sprofonda nel terrore: immensa è la paura di uno scandalo, che rovinerebbe la reputazione del figlio davanti al paese, il timore del giudizio di Dio, ingannato da una condotta deplorevole, eppure la donna, al contempo, nella sua semplicità, non può che chiedersi perché tale sciagura sia toccata al suo Paulo, perché l’amore che gli è toccato in sorte meriti il biasimo dei suoi parrocchiani e di Dio stesso, perché la scelta di Paulo non possa conciliarsi con una serena vita coniugale, domande alle quali la donna non può trovare risposta, se non in un dogma, che vieta senza fornire una reale spiegazione.
La donna non può che intercedere nella relazione del figlio con la parrocchiana, per cercare di salvare l’anima di Paulo e anche quella di Agnese, spingerle al pentimento e alla redenzione davanti a Dio: immagine che spinge l’uomo a covare un enorme senso di colpa per essersi reso responsabile di aver profanato una donna innocente e di averla condotta al peccato, condannata con lui a bruciare tra le fiamme infernali. Il Dio di La madre è un Dio che costringe a scelte difficili, i cui dettami risuonano nelle parole della donna. Ma è anche un Dio disposto al perdono, se ci si rivolge a lui con cuore pieno di fede e pentimento sincero: è il Dio dei semplici, degli ultimi, la voce della coscienza che richiama al dovere, il conforto dalle sofferenze patite ogni giorno.
Le spiegazioni che la donna adduce alla disgrazia del figlio, come d’altronde sono le atmosfere del romanzo, sono di tipo mistico, magico, misterioso: un’antica maledizione che grava sulla parrocchia e su chi la abita, il fantasma di un sacerdote ubriacone e godereccio, Satana giunto a tentare un’anima pia sotto le seducenti spoglie della bella Agnese. Le atmosfere del romanzo, come sempre negli scritti di Grazia Deledda, svelano una Sardegna misteriosa, densa di credenze e superstizioni che hanno lo spessore di verità assolute ed immutabili: è un’isola fuori dal tempo, cristallizzata in un eterno presente caratterizzato da tradizioni, usi e costumi millenari.
La Sardegna è vera protagonista, con le sue malie e le sue manie.
Nei romanzi di Grazia Deledda – autrice che ha risentito del suo nascere donna, a fine Ottocento, in Sardegna e in un ambiente familiare chiuso e bigotto, oltre che privo di mezzi economici – vi è tutta la frustrazione di personaggi imprigionati dalle catene che la società stringe attorno a loro, frenando il loro desiderio di evasione, com’è capitato all’autrice, che fin da piccola mostra segni di una vocazione letteraria continuamente osteggiata in famiglia, che trova il suo compimento soltanto in seguito al matrimonio e al trasferimento a Roma. L’amore potrebbe, nei suoi romanzi, rappresentare un punto di svolta, eppure esso è, al contrario, spesso fonte di dolore e morte, mentre l’eros è condannato e represso, perché espressione più vera del peccato.
Queste sono le catene e la condanna di Paulo: il soddisfacimento dei propri desideri più veri ha come conseguenza la dannazione eterna, l’esclusione dalla società, la perdita del proprio ruolo tanto faticosamente guadagnato, finanche la perdita di una madre che, col duro lavoro e la fede salda in Dio, incarna i valori positivi ma fortemente restrittivi della società contadina ivi rappresentata.
“L’interesse profondo di Grazia Deledda è qui: nella primordiale e cieca vita dell’istinto, nel suo soffocamento e nella conseguente rabbia.”
(D. H. Lawrence)