Recensione della nuova silloge del poeta Davide Rocco Colacrai, Ritratto del poeta in autunno – versi di malinconia e perdono.
Davide Rocco Colacrai dal 30 Settembre è nuovamente nelle librerie con la silloge poetica – edita ancora dalla casa editrice anconetana Le Mezzelane – “Ritratto del poeta in autunno – versi di malinconia e perdono”.
La forma
Davide Rocco Colacrai non è una penna nuova nel genere della poesia, pur non essendo “del mestiere”. Già noto alla critica letteraria e alle traduzioni straniere, pubblica il suo undicesimo libro di poesia creando una sinfonia con variazioni sul contemporaneo, in sei atti. La silloge, infatti, è composta di 30 componimenti divisi in 6 capitoli, ognuno scandito da un titolo altamente connotativo: abitare un interrogativo, appendere il canto alle fragilità, apostasie senza lancette, contrappunti (comuni), “Ti sei accorta anche tu, che in questo mondo di eroi nessuno vuole essere Robin?”, memorie da sotto l’orizzonte.
La musicalità del quotidiano
I riferimenti musicali sono d’obbligo giacché il poeta, anche musicista d’arpa, usa brani contemporanei per focalizzare la realtà in maniera polifonica. Assieme a questi cooperano riferimenti cinematografici e letterari di rilievo, e tutto funziona come un organismo simbiotico: la musica non si occupa solo di musicalità, i testi non solo di dare forma al contenuto; tutto è ragione di quello scampolo di realtà che il poeta condensa nelle singole poesie. Così come può essere la vita alcuni giorni.
La poesia di Colacrai parte da una revisione di alcuni fatti noti al pubblico e alla cronaca – anche quando l’avvio è apparentemente del tutto personale – che in qualche modo diventano mitologemi della vita civile. Non è lirica, dunque, ma canto di tutti. Non a caso è una poetica abitata da angeli, da dei e semidei, da presepi, da grembi fertili, maschili e femminili; è una poetica che nell’idea di creazione svela anche il subitaneo contrappunto della distruzione, con le sue angosce e le mostruosità che sublima («Eravamo […] come sogni messi ad asciugare prima di essere fiori per una lapide»). E in lontananza un motivo noto, un contrappunto, tiene assieme le parti.
Poesia o poema
Le immagini che Colacrai compone sembrano pronte per essere messe in musica, per un cantautore vigile sul mondo, sul suo sospiro e sul suo singhiozzare incessante spesso relegato tra le pieghe di un’esistenza che, invece, vuole per sé solo epiloghi felici. In questa forma, il poeta definisce cosa esiste da ciò che apparentemente ha solo tentato di esistere. Per questo, forse, bisognerebbe chiamare i componimenti di Colacrai poemi e non poesie: per la dilatazione inglobante e sempre gravida di immagini che ritornano su se stesse, sull’oggetto ricordato, omaggiato, memorato, sia per la vibrazione vitalistica di cui sono caricate. E le finalità: non lambirsi le ferite di umanità dolente in maniera autoreferenziale ma riconoscersi, tramite un uso strumentale o relazionale della lingua artistica, uguale a tutto il resto («sento il mio corpo farsi terra / e la terra nel suo canto nuovo per il creato / al centro dell’ombelico, / lo sento zolla a zolla»).
Consiglio di lettura dall’autore: «Il libro mi immagino venga letto accanto a un camino acceso con del vin brulé e delle castagne. L’autunno è la mia stagione preferita. Sembrerà un periodo malinconico, ma io lo associo alla rilassatezza. É la mia dimensione».
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