Robert Bernard Reich è professore ordinario di Politiche pubbliche presso la Goldman School of Public Policy dell’Università della California, Berkeley. Ha prestato servizio in tre amministrazioni statunitensi ed è co-autore del film Inequality for All e del documentario Netflix Saving Capitalism. Pubblicato in Italia dalla Fazi Editore, Il sistema è il suo ultimo lavoro.
Negli Stati Uniti la rabbia e la frustrazione date da sensazioni di declino sociale e tradimento sono alla base di un malessere profondo che si è già tradotto in un pericolo reale. Per spiegare cosa sia accaduto nel sistema americano e perché una buona fetta della popolazione si senta tradita, Robert Bernard Reich sposta la prospettiva dello scontro politico. La contrapposizione non è più tra Democratici e Repubblicani ma tra Democrazia e Oligarchia. Secondo Reich, il problema è che tanto il partito repubblicano quanto quello democratico sostengono gli interessi di una piccola minoranza di persone ai danni della collettività.
In America non ci sono assistenza sanitaria né sussidi di disoccupazione, un bambino su cinque vive in povertà e quasi 51 milioni di famiglie non possono permettersi spese mensili essenziali, ma il solo tentativo di introdurre nel dibattito pubblico il tema della redistribuzione della ricchezza viene attaccato duramente e bollato come “socialismo”. Ma, nota Robert Bernard Reich, l’unica forma di socialismo che l’America conosce è quella per i ricchi, come dimostra il salvataggio finanziario di Wall Street del 2008. «Dimon era al timone di JPMorgan quando la banca ricevette dal governo federale 25 miliardi di dollari quale contributo per contrastare la crisi finanziaria, provocata in larga parte dalle sconsiderate e fraudolente pratiche creditizie di JPMorgan e altre grandi banche. Lo stesso Dimon, però, quell’anno fu pagato 20 milioni di dollari. Se questo non è socialismo, che cos’è?».
Sfruttando l’esempio di Jamie Dimon, il CEO di JPMorgan che si dichiara democratico e pronto ad assicurare una “responsabilità sociale dell’impresa”, Reich dimostra perché persone che lavorano per aziende troppo grandi per fallire non possano perseguire realmente gli interessi della collettività, a dispetto di quanto dichiarino. Infatti, per raggiungere il suo (legittimo) obbiettivo di massimizzazione del profitto, Dimon ha dato il suo sostegno agli sgravi fiscali di Trump esercitando pressioni sul Congresso per ottenerle, si è opposto all’imposta patrimoniale della senatrice Warren e ha esortato il Congresso ad allentare i regolamenti bancari.
Tutto ciò danneggia la collettività che non può essere ripagata con la “responsabilità sociale d’impresa”, cioè la disponibilità delle grandi aziende a destinare parte dei profitti in progetti sociali. Spetterebbe al governo affrontare problemi sociali, ambientali ed economici ma l’impossibilità di farlo è dovuta proprio alla volontà delle grandi aziende che esercitano pressioni affinché i problemi non vengano realmente risolti. Attraverso la promessa di una “responsabilità sociale”, queste società evitano l’introduzione di leggi, regolamenti e imposizioni fiscali che ridurrebbero i loro introiti a beneficio della collettività.
Ma la responsabilità sociale serve soprattutto a giustificare agli occhi dell’opinione pubblica i privilegi che scaturiscono da un sistema truccato. Se i CEO e i miliardari tenessero realmente al benessere delle comunità sarebbero disposti ad un incremento della tassazione. Inoltre, l’idea di “pagare” attraverso l’erogazione spontanea di servizi, destinando a tal fine parti infinitesimali degli introiti, introduce un ulteriore rapporto di dipendenza. Quale sarebbe il potere di contrattazione delle comunità qualora le imprese decidessero di interrompere le loro azioni sociali?
«Dimon, Dalio, Steyer, Bloomberg e Schultz dicono tutti di avere a cuore l’America e di essere preoccupati perché il sistema si sta sfasciando. Ma sono tra i massimi beneficiari di come il sistema è organizzato. È una follia pensare che uno qualsiasi di loro guiderebbe la carica per cambiarlo». Chi ha una grande ricchezza la usa per acquistare potere e poi utilizza quel potere per accumulare ulteriore ricchezza.
24.949 americani straordinariamente ricchi hanno fornito il 40% di tutti i contributi elettorali nella campagna elettorale del 2016. E affinché la scommessa fosse vinta senza alcun margine d’errore le donazioni sono state tanto a favore dei Democratici che dei Repubblicani. Per quanto molti dei CEO si dichiarino democratici e convinti sostenitori delle libertà civili, nessuno di loro ha fatto niente per ostacolare Trump che li ha favoriti attraverso sgravi fiscali e deregolamentazioni. Ma, secondo Robert Bernard Reich, Trump è stato anche particolarmente utile nel distogliere l’attenzione pubblica dal problema delle disuguaglianze economiche e politiche.
Al crescente potere delle grandi aziende contribuisce anche la scomparsa del “potere compensativo” dei sindacati e di altri corpi collettivi che non riescono più ad esercitare alcuna influenza. Nel ciclo elettorale del 2015-2016 tutti i sindacati del paese hanno speso, insieme, circa 48 milioni di dollari l’anno per attività di lobbying a Washington. L’America delle corporation ne ha spesi 3 miliardi.
I finanziamenti, tuttavia, non sono l’unico strumento per esercitare influenza. Negli anni settanta, solo il 3% degli ex membri del Congresso intraprendeva una successiva carriera da lobbista mentre oggi quella percentuale è salita al 42%.
Questi colossi finanziari cercano di evitare l’introduzione di leggi e regolamenti, ma anche quando tali vincoli esistono li aggirano scegliendo di pagare sanzioni che sono irrisorie rispetto ai guadagni ottenuti violando la legge. Questo dimostra che non esiste alcun libero mercato separato e distinto dal governo. È il governo che, con forti pressioni esercitate da una piccola minoranza di super ricchi, stabilisce le regole del gioco. Il mercato non è un’entità assoluta: è creato da un insieme di regole riguardo cosa si possa negoziare, in che termini, e sotto quali condizioni. Si tratta di un insieme di scelte politiche.
Volendo individuare un momento in cui i mercati finanziari si sono sostituiti all’economia reale bisogna ritornare agli anni ottanta durante i quali i CEO delle grandi aziende, terrorizzati dall’idea di essere attaccati da predatori finanziari come Carl Icahn, hanno iniziato ad ignorare gli interessi dei vari attori coinvolti nel processo produttivo per dedicarsi esclusivamente alla massimizzazione del valore delle quote azionarie a breve termine. Vale la pena dedicare qualche riga per comprendere questo processo perché, come spiegato da Reich, segna un momento di svolta.
«I raid di Icahn consistono in genere nell’identificare imprese i cui asset valgono più della capitalizzazione di borsa. Icahn acquista quindi una sufficiente partecipazione azionaria da costringere la società a fare dei cambiamenti – come licenziare parte dei lavoratori e contrarre nuovi prestiti – che ne facciano aumentare le quotazioni. A questo punto vende le azioni ricavandone un lauto guadagno. […] I raider presero di mira quelle società che potevano distribuire utili più alti agli azionisti principalmente abbandonando gli altri stakeholder: aumentando i profitti in rotta con i sindacati, abbassando gli stipendi dei lavoratori o licenziandoli, automatizzando quanti più lavori possibili, abbandonando le loro comunità chiudendo le fabbriche e trasferendo i posti di lavoro in Stati con costi della manodopera più bassi o semplicemente spostandoli all’estero. Gli scalatori spinsero gli azionisti a bocciare gli amministratori restii a questo tipo di cambiamenti e, viceversa, eleggerne altri favorevoli (oppure a vendere le loro quote ai raider, che avrebbero fatto il lavoro sporco)».
Inoltre, sotto forti pressioni, la Casa Bianca di Reagan invitò nello stesso periodo il Congresso a ridurre le restrizioni bancarie sostenendo che ciò fosse necessario per renderle competitive con le rivali straniere e nel 1999, con Bill Clinton alla Casa Bianca, il Glass-Steagall fu abrogato con l’approvazione del Financial Services Modernization Act. Il Glass-Steagall, norma introdotta dopo La Grande Depressione, stabiliva una netta separazione tra banche commerciali (preposte alla raccolta di depositi e l’erogazione di prestiti) e banche d’investimento (votate a fare scommesse). Il venir meno di questa distinzione ha fruttato una crescita esponenziale alle banche ma è tra le cause principali della crisi del 2008.
Nella sua conclusione Robert Bernard Reich si dice comunque fiducioso riguardo la possibilità di un ritorno ad una democrazia in cui si persegua l’interesse collettivo. A questo proposito nell’introduzione scrive: «Io non voglio che conoscere queste realtà di fondo vi renda più cinici riguardo al sistema o rassegnati alla sua intransigenza. Al contrario, il primo passo per cambiare il sistema è capirlo. Se non comprendiamo la verità, diventiamo preda di falsità convenzionali e di false scelte, incapaci di immaginare nuove possibilità. Vedere il sistema per quello che è vi consentirà di unire le forza insieme ad altri per cambiarlo in meglio».
Fonte immagine: https://fazieditore.it/catalogo-libri/il-sistema/
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