Cos’è la guerra? Forse un polverone che si alza quando si parte in corsa dalla propria trincea a quella dell’avversario, colpendo spasmodicamente il suolo al ritmo dei propri passi, con in mente il nulla, se non l’istinto di sopravvivenza. Sarebbe dunque necessario un io determinato a combattere e un tu da distruggere. Nessuno vieta che siano compressi nello stesso individuo. Lo dimostra Sherman Alexie, considerato fra i migliori scrittori americani in circolazione, con una raccolta di frammenti di esistenza, pallottole dolorose alle nostre tempie caricate in Danze di guerra, in uscita a gennaio per la NN Editore.
Poeta, romanziere e sceneggiatore, Sherman Alexie risiede attualmente nella Seattle chiaroscurale descritta nelle sue opere, quell’ambiente multietnico che fin dall’infanzia lo ha visto immergersi in altri mondi. L’altro è il suo oggetto di osservazione preferito, il cosiddetto “diverso”. Un membro della riserva indiana che ha problemi di fede, immerso in canti propiziatori e coperte magiche; un padre di famiglia con gli scrupoli di coscienza per aver ucciso un ragazzino di colore intrufolatosi nel suo appartamento; un sedicenne che scopre la sessualità e quando trova il coraggio del temuto coming out viene respinto dal suo miglior amico.
Danze di guerra è un tripudio di colori, delle sfumature della quotidianità confuse sulla fragile tavolozza della vita, troppo grumose per essere ben stese sulla tela del perbenismo. Tutto quello che spazziamo sotto al tappeto, Sherman Alexie lo recupera, nel bildung che associa a ogni personaggio, nella speranza di dar loro vita dopo quei continui tentati suicidi.
«Perché i poeti pensano di poter cambiare il mondo?» l’angosciosa domanda di Sherman Alexie in Danze di guerra
La risposta è un’amara consapevolezza: «L’unica vita che posso salvare è la mia». L’autore definisce così la sua investitura poetica, parlando di un’arte che salva, la letteratura. Forse, solo partendo dalla cura del sé potrà suturare le ferite degli altri. Realizza così un’opera che ha un confine sottilissimo con l’autobiografia, soprattutto quando si fa riferimento all’identità, al senso di appartenenza.
«La maggior parte della gente pensa che sia l’ennesimo bianco dall’abbronzatura facile». Molti dei suoi personaggi rispecchiano il periodo della sua vita nella riserva indiana, uno in particolare è venuto al mondo con un’idrocefalo, un accumulo di liquidi nel cervello, proprio come il piccolo Sherman Alexie. Potrebbe forse celarsi dietro i vari racconti incentrati sulla figura paterna, una necessità di narrazione come cura che avrebbe portato Franz Kafka alla sua Lettera e Philip Roth a Patrimonio?
Sherman Alexie condivide indubbiamente caratteri stilistici e contenutistici con il grande autore americano Roth, nonché con il minimalista Carver e il massimalista Wallace. Un presente mostrato nella cruda realtà, alla ricerca di una qualche spiritualità che solo le danze indiane possono infondere nella nostra vita. Riti misterici che evocano spiriti invisibili, quelli che si manifestano in Danze di guerra nel canto di un padre al quale sono stati amputati un piede e diverse dita, così come nel senso del perdono. Nello spazio della battaglia con l’altro c’è ancora posto per la grazia. Ma cosa accadrà nella battaglia con se stessi?
«Legalmente ero innocente, questo sì, ma lo ero anche moralmente?». Quando ci si sente il cattivo e si vorrebbe uscire da se stessi, forse c’è solo una verità da ammettere: «non è il petrolio a governare il mondo, è la vergogna».
Il lirismo oltre la logica
«Come si fa a sopravvivere a queste rivelazioni? Si vive e basta. O, piuttosto, si esce finalmente dal seminterrato e ci si rende conto che è tutto finito. Storia vecchia. Ci sono nuovi cattivi e nuovi eroi, nuovi criminali e nuove vittime da etichettare, giudicare e poi buttare via». La vita scorre, ma quella danza misterica ha ormai sconvolto l’interno, è lì che si sedimentano le esperienze della nostra esistenza. L’etica dell’amore e la sinuosità della danza bellica sono i motivi per i quali lo scrittore può ancora salvare.