Sulla paura, di Jiddu Krishnamurti | Recensione

Sulla paura, di Jiddu Krishnamurti | Recensione

Il filosofo indiano Jiddu Krishnamurti è una delle figura più ispirate e illuminate del ventesimo secolo. Mai si è considerato un guru o una figura direttiva in nessun modo. In accordo con le sue idee e la sua filosofia di vita, l’insegnamento stesso è stato per lui quanto di più pericoloso ci fosse per una mente desiderosa di scoprire sé stessa. La libertà e la comprensione di sé, secondo Jiddu Krishnamurti, non possono avere nulla a che fare con l’affidamento ad una religione, un partito politico, un sistema scolastico, motivo per cui non si è mai identificato con la figura del maestro, nel senso comune del termine. Le questioni cruciali della vita vengono affrontate dal filosofo con preventivi smantellamenti. Si smantellano le cause radicali che portano l’uomo a contatto con le cose sia esterne che interiori, anche le più complesse quali l’amore, la paura, il tempo.

Oltre ad una vasta bibliografia, di lui restano numerose trascrizioni dei suoi discorsi, registrati in fasi diverse della sua vita. Un esempio è Sulla paura, pubblicato postumo. La sua morte è avvenuta nell’1886 e il volume pubblicato per la prima volta nel 1995. L’edizione a cui si fa riferimento nel presente articolo è del 1998 e la casa editrice è Astrolabio – Ubaldini Editore, sita a Roma. Il testo fa parte di una collana di volumi intitolata Krishnamurti su, ed ogni volume è dedicato a un tema pregnante dei suoi studi.

Il contenuto complessivo del volume è un ampio approfondimento sul tema della paura e sulla analisi che ne si potrebbe fare, successivamente ad una volontà manifesta di affrontarla davvero. Le direzioni che vengono toccate a riguardo includono alcuni assiomi fondamentali per il filosofo. Su tutto, c’è una meta-narrazione dell’applicazione stessa degli spunti riflessivi offerti: è impossibile, secondo Jiddu Krishnamurti, pensare di affrontare la paura creando conflitto con essa.

Come nasce questo conflitto? Dalla volontà di fuggirne e di sbarazzarsene: così facendo non si imparerebbe nulla, né sulla paura né sul lavoro che se ne può fare. La chiave primaria è, dunque, la curiosità verso la paura e non la fuga da essa. La fuga implica una resistenza. Al tempo stesso, non basta accettarla e cominciare a osservarla perché osservarla, così come fuggirne, vuol dire relativizzarla. Basti pensare al modo in cui facciamo riferimento alla paura quotidianamente: ‘io HO paura’. Avere qualcosa, implica che questa stessa cosa fa parte di noi, riconoscendo questo ci si può lavorare davvero, sovrapponendoci ad essa. Osservarla non basta, è l’osservatore che è la paura stessa, o almeno parti di lui. Giacché è risaputo che trattenere lo sguardo su noi stessi è la vera difficoltà, farlo attraverso un nostro sentimento così intimo come la paura vorrebbe dire analizzare i nostri comportamenti manifesti quando si presentano, fare caso a come agiamo e concentrarsi su di essi, sia essa una paura fisica o psicologica. Se non ci concentriamo innalziamo muri, inneschiamo ricordi basati su esperienze passate e facciamo di tutto per allontanarla da noi. Trattenendola possiamo avere l’opportunità di analizzarla, facendo attenzione a non astrarla, a non renderla un’idea. E’ uso comune infatti, per l’uomo, rendere tutto un’idea o un concetto senza stare e fermarsi nella concretezza di ciò che accade. Non posso separare le reazioni istintive della nostra paura da ciò che siamo, se lo facciamo ci inseguiranno sempre.

La riflessione che ne consegue è che tutti i tipi di attaccamento che costellano le nostre vite siano una diretta conseguenza della fuga dalla paura, ne fuggiamo attaccandoci alla fede, all’alcol, al sesso, ai partner di vita per riempire vuoti, solitudini, insufficienze, alla ricerca di soluzioni più o meno immediate. Guardare la nostra solitudine e le nostre inquietudini, secondo il filosofo, annullerebbe il bisogno di attaccamento a cose esterne.

La critica alla società di oggi ne scaturisce naturalmente. La società, fatta di uomini che hanno paura e che fuggono da essa, tende a innescare sentimenti di ambizione connotati positivamente e molto pericolosi. Lo stesso sistema scolastico, fondato su rapporti non paritari e di confronto ossessivo, basato su sistemi premio/punizione che giocano sulla paura degli studenti è pura e potenziale distruzione perché gioca sulle debolezze dell’uomo, sull’affidamento cieco a un maestro e un sistema come soluzione alle nostre paure. Fin anche l’amore, se scaturisce dalla fuga dalla paura, non può essere autentico. Stessa cosa avviene con la devozione e l’affidamento a una divinità religiosa.

Da cosa scaturisce, secondo Jiddu Krishnamurti, la paura?

Cercare la causa della paura, non nelle sue declinazioni, ma come emozione umana è fondamentale. Ad esempio, il filosofo collega la radice primaria della paura al pensiero. Il pensiero coltiva immagini mentali, ricordi, sensazioni. Quando non siamo totalmente nel presente, quando la concentrazione non è totale, il pensiero si fa strada e provoca paura così come piacere. La paura e il piacere sono, per questa natura, interdipendenti. L’uno è la faccia dell’altra. La domanda proposta ai discepoli è la seguente: si può fermare il pensiero?

Anche il concetto del tempo, così come quello del pensiero è in stretta correlazione con la paura per Krishnamurti. La memoria di un dolore passato o di una immagine di dolore che abbiamo archiviato può ripresentarsi in futuro ma non si sa quando: è il tempo che scorre a spaventare più che l’avvenimento della cosa stessa. La paura è frutto della memoria. Esistono due tipi di tempo, quello cronologico e quello psicologico. La differenza tra i due è che del primo abbiamo bisogno per vivere in società, circa il secondo siamo invitati a riflettere sulla sua esistenza, sulla sua interferenza nel nostro spettro emozionale. Il tempo, infatti, sembrerebbe essere frutto del nostro pensiero. Le esperienze del passato pensate e cumulate vengono inevitabilmente rapportate al presente per forgiare il futuro. E così il futuro è creato dall’esperienza passata in risposta al presente: un processo mentale. L’incapacità di vivere nel presente fa specchiare i traumi del passato nel nostro futuro possibile.

Caratteristiche stilistiche del volume di Jiddu Krishnamurti

Gli scritti contenuti nel testo avvolgono quasi due decenni a partire dagli inizi degli anni ’60, precisamente dal 1961 al 1985. Tuttavia, la successione degli scritti all’interno del libro non è di tipo cronologico ma concettuale. Gli scritti sono eterogenei: per lo più, si tratta di trascrizioni di conversazioni filosofiche o di discorsi a studenti, frutto di registrazioni, intervallati da appunti personali. La scelta stilistica per i volumi appartenenti a questa collana è singolare, essendo volumi postumi alla sua morte era inevitabile raccogliessero il materiale come un blocco appunti. Potrebbe risultare dispersivo o confusionario ma, facendo attenzione, la scelta potrebbe seguire delle esigenze comunicative. Ogni macro-concetto è esposto in sequenza e per ognuno di essi si trova un agglomerato di scritti che ne approfondiscono sempre di più i dettagli. La scelta, forse casuale, di intervallare i dibattiti e i dialoghi riportati con appunti e riflessioni personali rende la lettura intrigante. Inoltre, il volume si presta a più letture nel corso della vita: è interessante, per questo, prestare attenzione all’evoluzione temporale dalla seconda lettura in poi, per cogliere l’intensificarsi delle sue riflessioni.

Ciò che colpisce della posizione di Jiddu Krishnamurti è la volontà esplicita di non risolutezza circa la paura

Il filosofo non vuole dare una soluzione al problema della paura, non vuole fornire un vademecum su come evitare che questa emozione attanagli il nostro essere. Offre piuttosto delle chiavi interpretative, delle strade prima mai valicate dai più per concederci l’occasione di trovare la nostra. Insistere sulla attenzione verso le sue parole e i suoi discorsi è un punto che si ripete spesso nel testo, in una trascrizione si potevano evitare queste reiterazioni ma ritengo che la scelta sia cruciale nella misura in cui si fa riferimento alla stessa concentrazione che va prestata al nostro ‘io’ nel momento in cui scegliamo di analizzare le nostre paure, sviscerarne le cause, sovrapporsi ad esse in quanto parti di noi stessi. Per l’appunto, la sovrapposizione paura-osservatore è salvifica. Il verbo stesso ‘osservare’ implica sempre una oggettivazione del complemento e un distacco dello stesso da noi, come non ci appartenesse, come fosse una deresponsabilizzazione. Le posizioni di Jiddu Krishnamurti risultano però essere molto nette, il che è una particolare scelta comunicativa. Egli, per esempio, condanna fortemente la tendenza comune alla relativizzazione della paura poiché la ritiene non solo inutile ai fini della comprensione e dell’analisi della stessa, ma addirittura deviante. Sebbene possa essere una posizione valutabile e pregna di spunti critici, l’assunto è recepito da ognuno dei lettori in modi così diversi e secondo schemi ed esigenze personalissime che demonizzare l’osservazione in toto senza accenni ad una naturale gradualità del cambio di prospettiva potrebbe essere destabilizzante, considerato il lavoro e il tempo necessario per alcuni per rovesciare le proprie abitudini, il proprio modus.

Circa il concetto di attaccamento risultato di una fuga e del tempo legato alla memoria e alla suddivisione passato-presente-futuro, ritengo che le riflessioni siano oltremodo illuminanti. Secondo la filosofia di Jiddu Krishnamurti, per sua natura profondamente distaccata dai dogmi occidentali, il passato non può interferire con il presente poiché il proprio ‘io’ è qualcosa di mobile e dinamico e bisognerebbe ogni giorno guardarlo da capo con una mente nuova. I vecchi schemi interferiscono, sì, ma ciò che è nuovo è sconosciuto.

Il filosofo si trova più volte a porre delle domande ai propri ascoltatori, domande alle quali non necessariamente si cerca una risposta immediata. Esse vanno verso una retoricità, atte a fornire spunti riflessivi. Viene chiesto, tra le tante, se è possibile smettere di pensare, quasi fosse una provocazione, quasi a confermare che l’impossibilità di smettere di pensare, insieme all’evitamento della fuga, ci conduce alla risposta ultima: la percezione della paura come frutto del pensiero è la via per la libertà, per quanto complessa e bisognosa di indagini potenzialmente infinite.

Fonte immagine: Mondadori

A proposito di Francesca Zampelli

Vedi tutti gli articoli di Francesca Zampelli

Commenta