La notte della felicità, opera dello scrittore indiano Tabish Khair con traduzione di Adalinda Gasparini per Tunuè, porta con sé un interrogativo che, bene o male, ci siamo posti tutti quanti una volta nella vita: quanto siamo disposti a conoscere l’altro? Quanto a voler condividere la sofferenza altrui?
Il romanzo di Tabish Khair non dà risposte in merito, ma apre spunti di riflessione grazie alla voce narrante del personaggio principale, un business man di nome Anil Mehotra, uomo pragmatico, di successo che è riuscito a creare nel tempo il suo regno e la sua ricchezza. Ovviamente per fare tutto ciò è stato indispensabile l’aiuto dei suoi dipendenti, tra cui uno in particolare, Ahmed. Egli è già sulla cinquantina quando si candida per la posizione di lavoro e in più il suo nome evoca e traduce l’inquietudine degli equilibri sottili della società indiana che si basa sulla commistione fragile di culture e religioni a volte in simbiosi e a volte in contrasto. Mehotra scrive ricordando che, inizialmente, era tentato dallo scartare l’eventuale assunzione di Ahmed giustificandosi dietro al suo pragmatismo, il quale attentamente si può ridurre a una forma inconsapevolmente interiorizzata di razzismo.
Tuttavia le notevoli capacità linguistiche di Ahmed sovrastano il senso di paura di Mehotra, il quale decide di assumerlo e, nel tempo, iniziare a considerarlo anche il suo braccio destro all’interno dell’azienda.
Tra i due si va a stabilire una routine lavorativa che accorcia le distanze fra loro e fa cadere nel vuoto ogni diffidenza, o almeno questo è quello che pensa Mehotra, per il quale il lavoro rappresenta la ragione di vita e gli affari sono anteposti anche agli affetti famigliari. Mehotra si illude, in questo modo, di conoscere Ahmed nella sua integrità di uomo e lavoratore.
Succede però che nella piovosa notte di Shab-e-baraat, Ahmed si mostra agli occhi del suo capo in vesti diverse più umane e fragili, rompendo il solido strato di cecità pragmatica di Anil Mehotra, il quale si sente tradito, offeso e umiliato dalla rivelazione che si spiega di fronte ai suoi occhi increduli.
I colpi di scena di Tabish Khair
Il libro prende una piega diversa. Incomincia l’indagine di Mehotra verso la scoperta del passato di Ahmed, nella speranza di riappropriarsi della sua realtà ordinaria e semplice che non ammette disordini e imprevisti.
La ricerca febbrile però svela ancora di più la sofferenza che Ahmed ha vissuto nella sua vita, la genuinità dei suoi sentimenti, gli orrori che sono calati nel suo cuore come ghigliottine. Orrori così banali nella loro ragion d’essere da cui però sono sorte ferite che non possono essere curate in alcun modo.
L’immersione nella storia di Ahmed, porta Mehotra a rispolverare l’esercizio dell’empatia. È proprio grazie a questa apertura del cuore che un uomo ordinario e anche un po’ superficiale come Mehotra riesce a vivere un’esperienza stupefacente e di grande sensibilità.
Con quest’opera, Tabish Khair è riuscito a demolire mattone dopo mattone la figura oggi divinizzata dell’uomo pragmatico che, ridimensionato nella sfera degli uomini “comuni”, crolla nell’isteria e nell’incomprensione dei sentimenti e prende coscienza della propria aridità interiore.
La notte della felicità è un invito a fermare lo scorrere inesorabile del tempo, o meglio, a riappropriarsi del tempo della riflessione, del silenzio e dell’emozione. Solo così si potranno accorciare le distanze affettive degli uni e degli altri. Solo così si può conoscere e amare la fragilità del prossimo.
Come Tabish Khair fa dire ad Ahmed:
«Non si deve cercare la felicità, per la felicità ci si deve solo fermare».