“Questo libro è per tutti. Perché tutti dovrebbero interrogarsi su chi sono, per darsi l’opportunità di vivere l’unica vita che hanno nel miglior modo possibile. E il modo migliore lo si conquista soprattutto con la consapevolezza di sé. Per chi ha fatto un percorso di psicoterapia. Per chi sta pensando di intraprenderlo. E anche per chi vuole solo conoscere un po’ di più della psicoterapia”. Sono le parole incipit della prefazione di “Un viaggio chiamato psicoterapia”, il nuovo libro di Alessandra Parentela e Michela Longo, edito da CTL Editore Livorno e vincitore del premio Miglior Opera Prima al Festival della Cultura di Catania Etnabook 2020. Le autrici si definiscono “due donne che si sono incontrate per caso” ma, come ribadiscono, è proprio il caso talvolta a far iniziare delle storie che lasciano il segno: Un viaggio chiamato psicoterapia ne è la dimostrazione.
Prima di addentrarsi nelle 156 pagine che compongono il libro, vi è una filastrocca chiamata “Filastrocca dei mutamenti” scritta da Bruno Tognolini, che ben riassume il fine di un percorso come quello psicoterapeutico e lo esprime in una forma fanciullesca, che rende il concetto ancor più ricordabile. Segue poi la definizione, ovvero ciò che si intende per psicoterapia e successivamente la ramificazione dell’indagine, sviscerando questioni come il perché iniziare una psicoterapia e quali siano gli obiettivi. Fino a circa metà del libro, le redini sono mantenute da una professionista, la psicoterapeuta che attraverso schemi e semplici metafore cerca di far comprendere anche a chi non conosce l’universo della terapia, gli effettivi benefici della stessa e soprattutto specifica il punto di vista e di espressione dello psicoterapeuta. A fare da spartiacque è poi una dedica, che precede la seconda parte del libro, quella che vede protagonista Miki, personificazione di chiunque essere umano si trovi dall’altro lato della scrivania, seduto su di una sedia, un lettino, un divano, pronto a mettersi in gioco, per cercare se stesso. La seconda parte del libro si muove su un binario differente dalla prima: è di impianto narrativo, segue un filo dialogico, mettendo al primo posto l’emotività di un incontro che cambia il modo di percepire la propria vita.
La sensazione che pervade, dopo aver letto fino all’ultima pagina, è di curiosità: il mondo della psicoterapia è spesso avvolto da un alone di mistero; i libri da cui attingere fonti sono spesso scritti per chi lavora nel settore, dunque estremamente complessi da affrontare, soprattutto se si è alle prime armi. In questo caso, si è di fronte ad un libro didascalico, descrittivo, funzionale nella prima parte, successivamente narrativo ed emotivo nella seconda. Il connubio tra due scritture così disparate, però, non genera scompenso ai fini della lettura, anzi rende ancora più di ampio respiro il contenuto trattato, alleggerendo anche tematiche più complesse.
In una società che ha spesso rinnegato il potere salvifico della psicoterapia, un libro come “Un viaggio chiamato Psicoterapia” può essere un’ottima arma contro la disinformazione; il suo impianto, leggero, brioso, ma meticoloso nell’esposizione, conferma poi la funzionalità della narrazione. Oggi più che mai, con i disagi psicologici che la pandemia ha causato e tutt’ora causa, conoscere i percorsi, le dinamiche e gli approcci della psicoterapia è un vantaggio per chiunque ha voglia e bisogno di riprendere in mano la propria identità, il proprio vissuto e la propria vita.
[Foto di CTL Editore]