Vincenzo Palmisciano: intervista all’autore

Vincenzo Palmisciano

Un amore segreto alla corte vicereale di Napoli, nelle opere di don Giuseppe Storace d’Afflitto è un recente testo scritto da Sonia Benedetto e Vincenzo Palmisciano in cui viva passione e acribia filologica si mescolano, dando origine ad un testo complesso e composito.

Il testo si sviluppa intorno ad una tesi pervicacemente sostenuta e inseguita dagli autori: la possibile attribuzione dell’opera De la tiorba a taccone al letterato Giuseppe Storace d’Afflitto (ad oggi la filologia resta ancora incerta sull’identità vera dello pseudonimo Felippo Sgruttendio, firmatario dell’opera, da qui le ricerche ancora aperte su questo fronte).

In occasione della pubblicazione del volume, abbiamo intervistato uno dei due autori.

Un amore segreto alla corte vicereale di Napoli: intervista a Vincenzo Palmisciano

Vincenzo Palmisciano, qual è stata la genesi dell’opera Un amore segreto alla corte vicereale di Napoli, nelle opere di don Giuseppe Storace d’Afflitto?

Più di trent’anni fa, lessi De la tiorba a taccone de Felippo Sgruttendio de Scafato, un’opera pubblicata nel 1646, rimanendo colpito dalle  descrizioni coreutiche, dall’ironia e dal senso di incompletezza che mi lasciava, come se mi fosse sfuggito il suo vero significato. Dopo qualche mese, continuando le mie ricerche, lessi Il monte Posilipo, avvertendo la stessa sensazione di indecifrabilità. Così iniziai a indagare sugli autori di queste due opere e tentai di comprenderli meglio, ma ben presto si rafforzò l’idea che esse fossero parto della stessa penna, in quanto capii che “L’Incauto figlio della sirena Partenope” si anagramma perfettamente in: “La lira è aliena con Felippo Sgruttendio”. Lo scherzo Il monte Posilipo, a un’attenta analisi, mi ha fornito diverse informazioni autobiografiche relative alla donna amata, donn’Anna Carafa, e al conflitto che questa creò fra don Giuseppe Storace d’Afflitto e l’amico Girolamo Fontanella. Quest’ultimo venne infatti accusato di plagio, quando la raccolta Nove cieli fu pubblicata alla fine del 1640 esclusivamente a suo nome anziché anche a nome di don Giuseppe Storace d’Afflitto. Diversi sonetti in essa contenuti non furono dichiarati frutto della sua penna, nonostante fossero stati già parzialmente pubblicati nella parte prima dell’opera Della Musa lirica, di cui era in preparazione la parte seconda. Nello scherzo Il monte Posilipo si narrano l’epilogo della dolorosa vicenda dell’autore e tutto il tormento di un amore fedele per la crudele ricompensa ricevuta dalla donna, che ne danneggiò la reputazione con un vile atto, facendo inserire i suoi componimenti nella raccolta Nove cieli dell’amico Girolamo Fontanella, il quale diventò complice involontario di questo inganno. Appropriatosi indebitamente del lavoro dell’altro, il plagiatore lo pubblicò a suo nome. In presenza di Anna Carafa ci fu una contesa verbale sulla paternità dei componimenti e Giuseppe Storace d’Afflitto stava per prevalere nel conflitto, quando la viceregina lo sospese, rimandandolo all’indomani. Il giorno seguente, la controparte disse che aveva iniziato a poetare da giovane, aggiungendo che così come nel 1638 aveva composto su commissione l’ode «A Santa Caterina martire», allo stesso modo aveva scritto a pagamento gli otto sonetti Della Musa lirica, pubblicati a nome del suo committente, nel 1636. Anna Carafa decise di allontanare Girolamo Fontanella dall’Accademia degli Oziosi e Giuseppe Storace d’Afflitto dalla corte vicereale. Quest’ultimo si rivalse velatamente sulla viceregina pubblicando nel 1646 Il monte Posilipo e De la tiorba a taccone. Il Fontanella fece altrettanto non dedicandole nessuna elegia nel suo volume del 1645, mentre in precedenza le aveva dedicato il volume Ode nel 1638 e il Cielo di Venere dei Nove cieli nel 1640.

Antropologia e musica sembrano pervadere il testo Un amore segreto alla corte vicereale di Napoli: come, secondo Vincenzo Palmisciano e Sonia Bendetto, esse si fondono al sostrato letterario di tradizione partenopea?

Nella cultura napoletana c’erano e ci sono le credenze, le voci onomatopeiche e l’uso dei proverbi, per cui nel canzoniere De la tiorba a taccone troviamo più di settanta proverbi popolari, quattro credenze, svariate voci onomatopeiche e giochi popolari. La musica era uno dei piaceri del popolo che usava spesso il calascione per allietare le proprie giornate, per cui nel canzoniere abbondano le citazioni di villanelle e danze popolari. La poesia ne trae giovamento perché nelle due opere in napoletano del santagnellese si trova liberata dagli schemi di quel periodo e innovata dalla dinamicità della lingua napoletana e della cultura locale, ma su una base di studio di tanti altri poeti: Torquato Tasso, Giovan Battista Marino, Tommaso Stigliani, Giovanfrancesco Maia Materdona, Biagio Cusano, Onofrio d’Andrea, Giovan Battista Manso, Bartolomeo Bocchini, Paolo Richiedei, Donato Serra

L’opera segue una prassi filologica accuratamente strutturata, seppur in senso divulgativo piuttosto che primariamente scientifico: cos’ha avvicinato gli autori all’opera De la tiorba a taccone e conseguentemente alla figura di Giuseppe Storace d’Afflitto? Qual è stato l’iter seguito per lo studio, la ricerca e la trattazione degli argomenti?

Il canzoniere napoletano è frizzante e divertente, per cui la sua lettura rientra nel fare qualcosa per volersi bene. La dimostrazione della paternità dell’opera, attribuita a Giuseppe Storace d’Afflitto, è stata veramente ardua, perché ho dovuto prima pubblicare nell’articolo Corrigenda della biografia di Giulio Cesare Cortese l’atto di morte del 1622, e rendere indubbio che i precedenti studiosi avessero considerato i documenti di un suo omonimo, poi nel libro ho ricostruito la biografia e riportato il battesimo del 1605 di Giuseppe Storace d’Afflitto a Sant’Agnello di Napoli e ho evidenziato il lavoro di traduzione, imitazione, studio e innovazione svolto da Giuseppe Storace d’Afflitto su opere di poeti pubblicate dopo la morte del Cortese e prima della stampa della Tiorba. Ovviamente ciò mi ha spinto a ricerche in archivi di Stato, diocesani e parrocchiali, e in parallelo in biblioteche pubbliche, ecclesiastiche e private, italiane ed estere. Nell’elaborazione della mia tesi interpretativa ho cercato, mettendo in discussione le mie ipotesi iniziali, di vedere con occhi diversi tutti i contenuti riportati nel volume. Ciò ha comportato l’elaborazione di tante versioni, anche assurde o improbabili, succedutesi negli anni, sull’onda di nuovi pensieri e in risposta al desiderio di offrire, a studiosi e appassionati, i chiarimenti che io stesso avrei voluto ricevere. Dopo un continuo alternarsi tra il piacere della scoperta, la paura della verifica e i sospiri della conferma, eccomi giunto alla meta: una prima stesura del libro con incluse le traduzioni in prosa italiana delle due opere napoletane. Il volume, corredato da un ricchissimo apparato di correzioni e note, rispetta l’ordine cronologico delle produzioni letterarie: parte prima Della Musa lirica, Il monte Posilipo, De la tiorba a taccone, Rebuffo alli Spagnuoli. In più, ciascun sonetto in napoletano delle prime sei corde De la tiorba a taccone viene affiancato da un componimento in italiano, perché quelli dialettali intendevano richiamare quelli italiani appartenenti a Della Musa lirica o ai Nove cieli e ingiustamente sottratti a don Giuseppe Storace d’Afflitto. Il penultimo capitolo è un approfondimento di quei vocaboli napoletani la cui cognizione si era persa e di cui si spiega il significato. Mia moglie Sonia, l’autrice delle introduzioni alla lettura dei sonetti in napoletano, si è avvicinata alla Tiorba in questi ultimi dieci anni, dapprima per curiosità, in seguito con vivo interesse, sollecitata dalla mia richiesta di offrire ai lettori brevi e significative indicazioni che potessero essere per loro guida nella comprensione dei testi e delle connessioni fra i testi presenti, sia interne che esterne all’opera nel suo insieme.

L’opera è corredata da una sorta di appendice intitolata “Un abito da viceregina”: di cosa si tratta?

Nel capitolo finale, l’autrice propone una rielaborazione, filologicamente attendibile, dell’abito di donn’Anna Carafa, la musa ispiratrice del capolavoro poetico di Storace d’Afflitto. La veste, parzialmente raffigurata in un ritratto a stampa, viene esaminata e integrata attraverso le fonti iconografiche, letterarie, archivistiche e materiali, ossia i dati desunti dall’analisi di altri ritratti del periodo (in primis quelli della sovrana di Spagna, coeva della viceregina), da citazioni letterarie (versi di d’Afflitto e di suoi contemporanei), documenti d’archivio napoletani e spagnoli e originali dell’epoca. Lo studio ha rappresentato la fase preparatoria della realizzazione dell’abito stesso, affidata a un celebre costumista teatrale, e dei gioielli che lo corredavano, riprodotti da abili artigiani napoletani. Il risultato finale viene presentato nelle foto conclusive al volume, che ritraggono mia moglie, nelle vesti studiate, progettate e realizzate per suo desiderio.

Quali sono i vostri futuri progetti letterari e culturali in generale?

Vorremmo completare un libro sulle danze popolari napoletane su cui stavo lavorando prima di conoscere De la tiorba a taccone e rivisitare biografie non convincenti di alcuni pittori, letterati e comici.

Ringraziando Sonia Benedetto e Vincenzo Palmisciano, ricordiamo che il volume è acquistabile in tutti i principali negozi fisici e digitali.

Fonte immagine in evidenza: Sonia Benedetto, Vincenzo Palmisciano

 

A proposito di Roberta Attanasio

Redattrice. Docente di Lettere e Latino. Educatrice professionale socio-pedagogica. Scrittrice. Contatti: [email protected] [email protected]

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