05/10/1970: i 50 anni del disco dei Led Zeppelin che trovò il mondo impreparato
5 Ottobre 1970, cinquant’anni fa i Led Zeppelin pubblicano “Led Zeppelin III”.
Una data che bisognerebbe festeggiare ogni anno, e a maggior ragione se si spengono 50 candeline.
Incredibilmente però una parte abbondante della critica quel 5 Ottobre 1970 sostenne che qualcosa in quel supergruppo si fosse rotto.
La band giusto un anno prima pubblicando “Led Zeppelin II” era di fatto entrata nell’olimpo del rock.
Robert Plant, Jimmy Page, John Paul Jones e John Bonham divennero i nomi che qualsiasi appassionato del genere doveva saper recitare a memoria, perché non si trattava solo di musica, si trattava di dare voce ad una generazione che aveva una terribile voglia di urlare il proprio malessere ma una claustrofobica sensazione di non essere ascoltata da nessuno.
Per questo motivo dietro l’hard rock e la psichedelia dei primi Led Zeppelin si nascondeva un mondo che finalmente si sentiva rappresentato; dietro le visionarie ritmiche di John Bonham, l’erotismo della voce di Plant, gli tsunami sonori di Page c’era una generazione che finalmente sapeva di esistere, e che soprattutto si sentiva meno sola.
Per questo un nuovo disco dei Led Zeppelin non era un evento come un altro e il minimo cambio di registro poteva essere visto come un tradimento verso tutti quelli che riuscivano a ritrovare il senso della propria esistenza dietro la loro musica.
La verità però è che molto semplicemente quando vivi un’epoca d’oro come quella vissuta dal gruppo tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70, anche reinventandoti, innovando, sperimentando, sei fatalmente destinato a produrre qualcosa di incredibile.
“Led Zeppelin III” non è il disco che fa da ponte tra il II e il IV (che poi divenne il più grande successo del gruppo), il III è concepito come un manifesto di libertà espressiva, è un capolavoro che con gli anni ha messo d’accordo tutti, come solo i migliori dischi sono stati capaci di fare.
Su cosa si appoggiarono allora coloro i quali criticarono aspramente questa pubblicazione?
Si appoggiarono sul fatto che i Led Zeppelin erano i portavoce di una generazione arrabbiata, ma nel III vennero rispolverate delle sonorità folk e blues che misero in difficoltà tante persone che scrivevano di musica e che credevano di aver inquadrato bene il fenomeno “Led Zeppelin”. La conclusione di tutto ciò fu che la band venne accusata di essersi “rammollita” e di aver perso il furore sonoro dei primi lavori.
Chi sosteneva ciò non aveva evidentemente capito la portata del gruppo del quale stava scrivendo. Seppur il risultato di essere uno dei principali simboli della rivoluzionaria generazione sessantottina già fosse un grande traguardo, in realtà le pretese di Page e compagni erano molto più alte, l’obiettivo era quello di costruire qualcosa destinato a vivere per sempre.
Il disco nasconde tutta la complessità del gruppo che lo ha generato, è come una intricata figura tridimensionale che ripetutamente si rigira su se stessa senza chiudersi mai. Perché quando pensi di aver capito tutto dei Led Zeppelin, in realtà sei solo all’inizio.
“Led Zeppelin III” si apre con “Immigrant Song” che si presenta come una sorta di ouverture di un’opera lirica, il riff iniziale è uno dei più famosi della storia del rock, l’atmosfera teatrale che genera il brano ha portato il gruppo ad utilizzarlo come pezzo di apertura dei live, quasi una sorta di dichiarazione d’intenti, e l’intento stavolta è quello di alzare l’asticella.
“Friends” mette subito in chiaro che questo disco suonerà in modo differente, ai pomposi riff ai quali erano abituati i fan si sostituiscono delle sonorità completamente acustiche, i ritmi cadenzati trasportano l’ascoltatore in una serata di campagna con vino, canti popolari e barili al posto delle sedie. È un brano che riallaccia il gruppo alle sue tradizioni familiari, che sa di libertà e che riporta la musica alla sua ancestrale funzione di momento di condivisione. Non a caso l’ispirazione per i brani più acustici del disco Jimmy Page e Robert Plant l’hanno avuta in un periodo di isolamento dal caos della quotidianità in una montagna nel Galles.
La successiva “Celebration Day” sicuramente rassicura il fan più nostalgico, Page ritorna a perturbare l’ambiente generando un’onda sonora che viene abilmente cavalcata da Plant, sembrano tornati i vecchi Led Zeppelin.
Chi, arrivato a questo punto, avrà pensato di esser riuscito a decodificare il percorso artistico che vuole seguire la band nel disco verrà improvvisamente catapultato in una oscura palude priva di appoggi, in una enorme landa di sabbie mobili all’interno della quale è inevitabile cadere e sprofondare. Ma se cadere nel nulla significa ascoltare “Since I’ve Been Loving You”, io non voglio più rialzarmi.
Il capolavoro del disco senza ombra di dubbio, inizia come una ballata blues, sale di tono fino a mostrare le scale del paradiso, quelle che poi verranno narrate nel disco successivo in quella “Stairway to Heaven” che a detta di molti è la più bella canzone di tutti i tempi.
I due pezzi sembrano fatalmente legati all’immortalità, ti accompagnano passo passo senza lasciarti per mezzo secondo.
In “Since I’ve Been Loving You” non c’è nessun cambio brusco, tutto è perfettamente levigato, come fosse concepito da un vecchio fabbro, in una infinita serie di spirali concentriche che ti conducono lontano senza che tu manco ti fossi accorto di essere partito. Chi ascolta il brano viene passivamente trasportato lungo le sue morbide melodie che col tempo tendono ad articolarsi complicando sempre più la struttura ritmica, John Bonham dimostra ancora una volta di essere uno dei migliori percussionisti di sempre, Jimmy Page guida minuziosamente ogni passo armonico, ma nulla, chi ascolta questo pezzo non si accorge di nulla.
Si preme su “play”, iniziano i primi secondi e all’improvviso sono passati 7 minuti e mezzo di pura bellezza.
Con “Out of Tiles” i Led Zeppelin tornano a graffiare incendiando l’atmosfera ovattata generata dal brano precedente. “Gallows Pole” e “Bron-Y-Aur Stomp” ripropongono le melodie folk e blues inaugurate da “Friends”, stavolta aggiungendoci anche sonorità country, il rullante di Bonham scandisce quasi il rumore dei stivali che percuotono il pavimento in una festa di campagna.
“Tangerine” e “That’s the Way” portano ad un ulteriore cambio di passo, al dinamismo dei brani precedenti si oppone la dolcezza della melodia tracciata da Page e compagni, ancora una volta il gruppo mostra un’altra faccia del maestoso costrutto artistico costruito. Le sonorità stavolta sono distensive, Robert Plant indossa quasi le vesti di un cantastorie che accompagna gradualmente l’ascoltatore al finale del blues ipnotico di “Hats off To (Roy) Harper”.
Alla fine del disco ci si arriva quasi stanchi, come succede sempre quando si ascolta un capolavoro.
Il III dei Led Zeppelin è e sarà per sempre un manifesto di libertà artistica, oltre che di onnipotenza di un gruppo che ha cambiato irreversibilmente la musica degli anni 60 e 70 e che ha dettato i canoni di quella che si sarebbe prodotta successivamente, perché a partire da “Led Zeppelin III” nulla sarebbe stato più come prima.
Fonte immagine: Wikipedia.