Si intitola didascalicamente “EP1” questo esordio discografico milanese immerso tra scenari metropolitani e antiche reminiscenze psichedeliche, tornando all’acidità di alcuni Pink Floyd come anche alle nebulose distese paesaggistiche dei Mogway. Ed è forte quel mood sudista che quasi quasi mi rimandano a ricami artigianali proprio di quel certo modo di essere lascivi dentro suoni grigi e piovigginosi come accade nella “sfavillante” Paisley Underground dei Dream Syndacate. Un primo tassello tutto in italiano, dove si mescolano lunghi strumentali e intarsi lirici di una melodia “domenicale” incisa come fosse su legno antico di querce secolari.
Gran Zebrù. Curioso questo nome da cui si prendono ispirazioni Vi riferite alla montagna o c’è altro? E che significato c’è dietro?
La ricerca del nome della band è stata piuttosto travagliata, cercavamo qualcosa che piacesse a tutti e quattro e, a un certo punto, ci siamo imbattuti in questa montagna maestosa, con un nome curioso. Non c’è un significato particolare ma, come per la nostra musica, se ci suona bene, allora funziona. I nostri primi follower, sui social, sono stati ovviamente degli alpinisti!
Un primo Ep oggi che dal suono così come dalle dinamiche… come anche nel titolo… sembra “provarci” ma con discrezione. Sembra che tutto questo lavoro dei G.Z. voglia come starsene in disparte… che ci dite?
Si tratta di un lavoro spontaneo, che non ha particolari ambizioni se non quella (per noi importantissima) di soddisfare il nostro gusto come musicisti. Tutti e quattro abbiamo militato in diverse formazioni che, in qualche modo, ci “provavano”, come dici tu. Dopo queste esperienze ci siamo ritrovati a suonare insieme, senza un piano preciso, soltanto per il piacere di farlo. Abbiamo scoperto che questa attitudine portava a risultati interessanti, così abbiamo selezionato alcuni brani e li abbiamo registrati in questo primo EP. Non vogliamo stare in disparte e nemmeno al centro, ma sentiamo di avere qualcosa da dire e lo facciamo in questo modo.
Chiare le ispirazioni che vanno dalla forma pop alla psichedelia. In questo enorme cesto di contaminazioni quasi non è ben chiara la vostra precisa collocazione. Dunque un disco questo che è di ricerca, di sperimentazione, oppure è una scelta ben precisa quella di non definire una forma a priori?
La nostra musica non è sempre collocabile in una precisa categoria, non si tratta di una scelta ma del risultato del nostro suonare insieme. La composizione dei brani è imprevedibile: improvvisiamo, registriamo e sviluppiamo. Questo ci consente di utilizzare diverse attitudini, di farle coesistere e persino scontrare, di profanare le forme tradizionali oppure di sposarle in toto. Ci concediamo la libertà di non aderire a uno schema preciso. L’unico vero criterio è quello del nostro gusto.
E tra le tante cose in “Piccolo Lord” esiste la Turchia, esiste quel retrogusto di scale arabe… da dove saltano fuori e perché?
Hai colto un ottimo esempio, “Piccolo lord” è probabilmente il brano più rappresentativo della nostra attitudine. È nato da un’improvvisazione su un singolo accordo, sulla quale si sono innestate diverse influenze, compresa quella scala un po’ esotica che è finita nelle registrazioni e ci è piaciuta, diventando il tema principale del pezzo. Nessuno aveva pianificato quel tipo di influenza, ma è arrivata ed è rimasta. Utilizziamo lo stesso metodo anche per i testi: vengono prima improvvisati, poi selezionati o rielaborati mantenendo sempre l’intenzione o la metrica iniziali.
Se dalla copertina ci viene un senso di sospensione domenicale, ti metropolitana insensatezza… dai colori che “accesi” che quasi scappano alla monotonia del resto ci viene quel messaggio di speranza, di rivoluzione forse…
Quel contrasto raffigurato sulla copertina, l’immobilità monocromatica e la distorsione dei colori, rappresenta lo scenario urbano nel quale viviamo. Musicalmente parlando, potrebbe riferirsi all’alternanza fra quiete e caos che caratterizza molti dei nostri riferimenti musicali: Slint, Motorpsycho, dEUS, Verdena. L’idea di “rivoluzione”, alla quale accennavi, ci interessa più da una prospettiva culturale che politica. I concetti di contaminazione e di apertura mentale, che sono alla base della nostra proposta, si scontrano con una situazione culturale atrofizzata che rappresenta, secondo noi, il principale ostacolo a un vero progresso in ogni settore.
Domanda forse troppo metaforica ma un brano come “Solo adesso” mi la ispira inevitabilmente: secondo voi esiste sempre un perché alle cose?
In quel brano parliamo di una complicità che nasce “senza un perché”, proprio per valorizzare il primato dell’intuizione sulla razionalità. In un periodo in cui tutto quanto è apparentemente spiegabile, in cui i “perché” sono a portata di click, si rischia di perdere il gusto dell’esperienza personale, la capacità di avventurarsi e magari di sbagliare strada. Quindi la nostra risposta è: no, fortunatamente non esiste sempre un perché.
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