Dicembre, il mese della luce. Si accendono festose le illuminazioni per le strade, rompe il buio nel tepore delle case la luce dell’albero di Natale, brillano le candele dei fedeli. Ma, nel mese della luce, acceso è anche il ricordo. Il ricordo di giorni strappati via come petali, che ogni anno in questo periodo l’amico e confidente ci chiede di raccogliere a manciate, per descriverne le sfumature, il profumo. Conservare quei petali meglio preservati e piangere su quelli più fragili, gettarli via magari, perché più soggetti alle intemperie del tempo.
Molti petali della memoria collettiva sarebbero gettati via quest’anno, ma alcuni sono ormai divenuti segni indelebili nella storia del 2016. Un anno costellato di perdite, addii che ancora riecheggiano nelle mente di chi osa porgere l’orecchio al passato e domandarsi il senso del presente. L’ossimoro presenza/assenza trova spiegazione nel ricordo. Eterne domande, che pesano sul petto, dilemmi di vita, che empaticamente possiamo condividere con chi non c’è più. Colui che nelle proprie parole è stato in grado di perpetuare la vita, e con questa la sua parte che più inquieta: la morte.
Riecheggia nel ricordo una voce, quasi roca nel suo tono basso, incorniciato da soavi voci di coro. In questo tripudio di luci e oscurità, vita e morte, a chi porge l’orecchio si presenterà la voce di una delle nostre perdite più toccanti dell’anno quasi terminato.
Leonard Cohen: un’assenza che pesa
Scomparso lo scorso mese, il cantautore canadese nel suo ultimo album si è voltato indietro verso la sua vita, come noi facciamo a dicembre, ogni anno. Si volta indietro, e dal passato estrae i piccoli frammenti di sé che ha lasciato nelle sue poesie, portandole alla ribalta, con sottofondo di archi, e sulle corde del basso, dal suono oscuro come la sua voce. You want it darker, primo pezzo dell’album a cui dà il nome, presenta immediatamente all’attento ascoltatore quanto la vita sia un soffio, lo stesso soffio che spegne la fiamma e ci lascia nel buio. «Hineni, hineni» ripete Cohen. Tratto dall’episodio del sacrifico di Isacco, vuol dire “eccomi”, «I’m ready my Lord».Il brano di apertura del suo ultimo album, oltre a contenere quelle citazioni bibliche che sempre lo hanno ammaliato nella sua arte, si imposta come un dialogo con Dio, nel momento in cui la candela della vita sta per spegnersi.
“You want it darker” e l’addio al mondo
L’intero album, fin dal primo pezzo, è un addio di Cohen al mondo, ed è per questo che ha bisogno del raccoglimento, del ricordo, di inserire frasi o interi testi di poesie già scritte, come estremo commiato a un mondo in cui si è sentito piccolo, ma nel quale ha amato cercare la magnitudine. La riflessione religiosa di Cohen, in esplosione nei suoi testi (non solo dell’ultimo album), lo ha condotto nel corso della sua vita ad approfondire la religione ebraica, seguendo le sue radici, ma anche a farsi monaco buddhista, con il nome Jikan, il “silenzioso”. Ed è così che anche l’ultimo album, dal soft rock che ha connotato la sua carriera, è eco di canti, preghiere, salmi, ma in bilico tra «the ruins of the Altar and the Mall», le rovine dell’Ara e il centro commerciale.
Il suo essere sospeso tra cielo e terra è quasi profetico, come il tono del suo canto, nel turbinio di rimbombi da esso creato, nei testi densi, pesanti di parole, di estreme verità al limite della vita.
«I’m old and I’ve had to settle on a different point of view», dalla sua vecchiaia guarda da un nuovo punto di vista, quello del viaggiatore in partenza. È dunque pronto ad alzarsi da tavola, come scrive in un altro pezzo dell’album, e la fiamma è spenta, in forma di commiato. Finalmente adesso è pronto a partire, ma viaggia leggero, «I’m traveling light», perché porta con sé solo l’essenziale.
L’ultimo album-testamento, uno dei petali della sua vita.
La voce dal tono basso diventa a mano a mano bisbiglio, fino quasi a non ricoprire che un minuto nell’ultima canzone, con l’estrema preghiera, l’estrema richiesta di un patto d’amore. Perché la verità da lui conosciuta sembra essere a un filo sottile tra l’amore e la morte. Eppure è il momento di partire, per nascere di nuovo. «Born again is born without a skin».
Per quanto la verità sia ora così difficile da accettare, Leonard Cohen continua a lanciare un messaggio di coraggio, in questa vita che è un soffio. «Steer you way», fatti strada. Continua ad amare, a vivere, a ricordare.
Voltarsi indietro è allora d’obbligo, e magari questo dicembre sapremo chi ascoltare, per farci strada nel nuovo anno.