Iyv è una band veneta alternative-rock fondata nel 2001. Sono quattro in tutto gli album pubblicati dal gruppo, incluso il nuovo disco “BLACKTAR”, contenente la traccia “RENAMER”, a breve disponibile su tutte le piattaforme in streaming digitale. Il brano tratta della difficoltà affrontate da chi, reduce da un passato di tossicodipendenza da eroina, cerca di reintegrarsi in società. Il titolo “RENAMER” richiama il processo di ridefinizione della propria identità, la lotta contro una società che corre incurante della condizione di chi non ha le possibilità di inseguirla. I suoni malinconici, i riff di chitarra, evocano il sentimento di perdizione e di sconcerto scaturiti dalle difficoltà di ricostruire una vita “normale”.
Abbiamo avuto la possibilità di ascoltare in anteprima “RENAMER” e di porre alcune domande alla band.
Alcuni anni fa, grazie ai talent ed alcune band, è sembrato tornare di moda l’alternative rock in Italia. Oggi, invece, si ha l’impressione che sia un genere di nicchia riservato a pochissimi appassionati. Quanto è difficile fare rock in questo paese?
Dici bene, è sembrato tornare di moda.
In realtà c’è veramente poco movimento alternativo rock, quantomeno nel mainstream. Se pensiamo agli anni ’90 e 2000 (e non necessariamente per entrare nel viale dei ricordi nostalgici) molta musica rock mainstream rientrava nel settore alternative.
Possiamo aver visto brevi sfoghi che per alcuni sono parse rinascite, ma la realtà attuale è che il genere rimane di nicchia, seguito da una base di appassionati fedeli ma ridotta.
Il problema principale è la mancanza di un vero supporto strutturato per la musica alternativa. Le radio e i media mainstream tendono a privilegiare generi più immediati e commerciali, mentre il rock – soprattutto quello più crudo e autentico – ha bisogno di un pubblico attento, disposto a immergersi in testi e sonorità più profonde. Le realtà indipendenti esistono, ma spesso sono costrette a muoversi in un contesto frammentato, senza il sostegno di un’industria discografica che creda davvero nel rock come fenomeno culturale e non solo commerciale.
Anche dal punto di vista live, la situazione è complessa: ci sono meno locali disposti a investire in band emergenti e meno circuiti che permettono di suonare con continuità. Questo crea un effetto a catena: meno concerti, meno pubblico abituato a seguire la musica dal vivo, meno opportunità di crescita per le band.
A tutto questo si aggiunge l’importanza quasi ingombrante dell’estetica nel mercato musicale. L’immagine è diventata un elemento imprescindibile, spesso persino più rilevante della musica stessa. Se un progetto non rientra in determinati canoni estetici preconfezionati e facilmente incasellabili nel concept di “prodotto”, difficilmente riesce a essere distribuito fluidamente. Il rock, per sua natura, è un genere che si nutre di spontaneità, di imperfezione e di verità espressiva, e questa sua essenza entra spesso in conflitto con le logiche di mercato attuali, che cercano costantemente di incasellare ogni artista in un format ben definito. Questo limita la diffusione di progetti che non si piegano a queste dinamiche.
Noi personalmente abbiamo sempre vissuto la musica come un’espressione artistica autentica, senza cercare compromessi per renderla più “vendibile”, e ci sta bene così.
Il vostro precedente disco “I killed Someone” mescolava l’alternative rock a sonorità grunge. Nel brano “RENAMER” le nostre aspettative non sono state deluse: è un disco che graffia l’ascoltatore. Cosa dobbiamo aspettarci per gli altri brani di “BLACKTAR”?
Se I Killed Someone era un album crudo, sporco, quasi volutamente corrotto nella sua estetica lo-fi, BLACKTAR è il passo successivo: una discesa ancora più profonda nel conflitto interiore, nelle dipendenze e nella ricerca di una sorta di redenzione. Il disco ha una struttura ciclica: inizia con un rumore di fondo – simbolo della confusione, del chiacchiericcio incessante della società e di uno stato mentale e fisico in estrema difficoltà – e si conclude nello stesso modo. Dentro questa fotografia di momenti di vita, ogni brano rappresenta una fase di questo viaggio.
Il racconto prende il via con Synchronize to the Shelter, un mantra che emerge dal rumore, per poi condurre a Renamer, una delle tracce chiave: il punto di consapevolezza, il distacco dalla dipendenza e il tentativo di ricostruire una nuova identità. Anche gli altri brani sono fondamentali nel percorso narrativo dell’album: la lotta tra autodistruzione e bisogno di salvezza in Flow, il senso di fallimento e rassegnazione in The Last Road to the Silver Giant. Ogni canzone è un tassello che compone il concept del disco.
A livello sonoro, ci siamo spinti oltre rispetto a “I Killed Someone”: il disco presenta delle sonorità rock abbastanza pure, sebbene ci sia molto digitale nel mezzo. Il processo di registrazione ha visto l’utilizzo di strumenti analogici e amplificatori valvolari e una serie di effettistiche che hanno “rotto” la naturalezza dell’analogico per trasformarlo in qualcosa di più cheap (bitcrusher e simili) così da riecheggiare suoni del mondo digital computer di fine ’80 e inizi ’90. Il tutto sta in equilibrio tra il sound aggressivo del grunge e atmosfere più dilatate e riflessive. L’uso delle accordature in drop D, il lavoro sulle dinamiche e il contrasto tra momenti esplosivi e passaggi più introspettivi danno al disco un’identità ben definita, intensa e viscerale. È un disco che va vissuto più che semplicemente ascoltato.”
Il nome della canzone “RENAMER” rimanda all’idea di dover ritrovare un’identità. Un percorso di questo tipo è difficile per tutti, non a caso è possibile scorgere una certa malinconia in tutto il brano. Essa è il risultato di una resa di fronte all’impossibilità di trovare un posto nel mondo?
Non è tanto una resa quanto una presa di coscienza. Renamer racconta quel momento in cui ti rendi conto che il mondo è andato avanti senza di te, che non si è fermato ad aspettarti mentre tu eri intrappolato nella tua spirale. È una canzone che parla della lotta tra il desiderio di ricostruire un’identità e il peso di un passato che sembra sempre pronto a definire chi sei.
La malinconia del brano nasce proprio da questa consapevolezza: il tentativo di rientrare in una realtà che sembra ormai distante, la frustrazione di sentirsi ancora identificato con ciò che si è stati e la rabbia per non riuscire a scrollarsi di dosso quella versione di sé. È la fase in cui inizi a capire che non puoi tornare indietro, ma allo stesso tempo non sai ancora bene dove andare.
Il titolo Renamer rappresenta questo limbo: l’idea di doversi rinominare, di riscrivere la propria storia, ma con la sensazione che, alla fine, il mondo ti vedrà sempre per quello che eri. Non è una resa, ma nemmeno una vittoria: è quel momento sospeso tra la negazione e l’accettazione.
Il testo di “RENAMER” tratta del senso di smarrimento seguente ad un periodo di tossicodipendenza e della difficoltà nel “reinserirsi” in società. Fare musica si può ritenere uno strumento efficace per ritrovare dei riferimenti nella propria vita?
Si, fare musica è uno strumento utile a ritrovare dei riferimenti nella propria vita, soprattutto quando si esce da un periodo così difficile come quello delle dipendenze. Personalmente, la musica è sempre stata una forma di espressione fondamentale proprio perché spesso viviamo in una società in cui non è possibile dire liberamente tutto ciò che pensiamo, quando vorremmo farlo – e comprensibilmente, aggiungerei. Ma questo senso di repressione genera inevitabilmente frustrazione, adattamento forzato, fino al punto in cui rischi di diventare un involucro vuoto, con i tuoi pensieri intrappolati lì dentro. Scrivere musica diventa allora un modo per liberare quelle emozioni, per esorcizzare la frustrazione e il senso di perdita d’identità.
La musica, vista sotto questa luce, è terapeutica: riesce a restituirti un’identità, punti di riferimento certi, anche quando tutto attorno sembra perdere senso. Attraverso la creatività puoi liberarti da ciò che ti opprime, restituendo verità e sincerità. I risultati di questo processo possono piacere o meno, ma sono profondamente onesti.
Il dibattito pubblico sul tema della tossicodipendenza è avvolto in un velo di retorica ed ipocrisia. Quale dovrebbe essere l’atteggiamento giusto, dal vostro punto di vista, per discutere di dipendenze?
BLACKTAR, innanzitutto, non parla di dipendenza in termini spiccioli come il semplice uso e abuso di sostanze; affronta invece un’analisi approfondita del concetto stesso di dipendenza. In questo processo emerge chiaramente che la dipendenza non riguarda esclusivamente le sostanze, ma può manifestarsi sotto molte forme diverse: affettive, emotive, psicologiche. È importante riflettere su questo aspetto quando si parla di dipendenza, perché limitare l’argomento al solo uso di sostanze – di cui peraltro spesso si parla a sproposito e senza reale cognizione di causa – è fuorviante e non può portare a nessuna soluzione concreta.
Se parliamo specificamente di sostanze, l’errore più grande è demonizzarle superficialmente: di per sé, le droghe non sono “il mostro”, bensì possono essere quei compagni di avventura che un individuo non ha mai avuto, quei colori nei quali si cerca disperatamente un’identità, talvolta trovandola davvero. A questo aspetto meramente psicologico si aggiungono poi i problemi legati alla chimica del nostro corpo, che complicano ulteriormente il quadro generale.
Il dibattito pubblico sul tema della tossicodipendenza è spesso avvolto in un velo di retorica e ipocrisia. Troppo frequentemente si tende a stigmatizzare, o al contrario, a romanticizzare l’argomento senza comprenderne realmente la complessità.
In tema, mi viene in mente una provocazione del comico Bill Hicks—ripresa anche dai Tool nell’intro del brano “Third Eye” da Aenima— «See, I think drugs have done some good things for us! I really do. And if you don’t believe drugs have done good things for us, do me a favor. Go home tonight and take all your albums, all your tapes, and all your CDs and burn ‘em. Because, you know what? The musicians who made all that great music that’s enhanced your lives throughout the years—real fucking high on drugs.»
Ciò invitava ironicamente a riflettere sul contributo storico-culturale delle sostanze nella creatività artistica e musicale. Non si tratta di celebrare o giustificare l’uso di droghe, ma piuttosto di sottolineare quanto sia sbagliato ridurre un tema complesso a semplici slogan. Le sue parole volevano far riflettere sulla necessità di superare giudizi moralistici, invitandoci a ragionare su come certi fenomeni, pur problematici, abbiano sempre avuto un legame profondo con l’arte, con le storie personali, con la creatività umana e con le fragilità di ognuno di noi.
Con BLACKTAR, abbiamo scelto di raccontare una verità scomoda, cruda, ma soprattutto autentica, lontana da stereotipi e giudizi superficiali.
Fonti immagine: Ufficio Stampa