La commissione nazionale tedesca per l’UNESCO ha iscritto la techno nel registro nazionale dei patrimoni culturali immateriali: questo è un passo in avanti fondamentale nel riconoscere l’importanza che questo genere musicale ha avuto nel plasmare l’identità culturale e il tessuto urbano di Berlino dopo il crollo del muro. Il percorso che ha portato a tale riconoscimento è stato, però, tutt’altro che lineare e privo di ostacoli.
1. Storia della techno di Berlino
Premettendo che Berlino conobbe già una cultura proto-underground negli anni ’20, nel pieno della Repubblica di Weimar (1919-1933): quella della capitale tedesca, infatti, era una scena queer di una vitalità senza eguali che, per la prima volta nella storia d’Europa, portò alla formazione di un luogo di incontro interamente cucito sul rispetto e la tolleranza delle diversità, prima che i nazisti lo spazzassero via.
Per quanto riguarda, invece, il genere musicale nello specifico, secondo alcuni storici e sociologi la techno sarebbe sorta a Detroit negli anni ’80, raggiungendo però l’apice della sua popolarità in Europa e, soprattutto, a Berlino Ovest, in un momento storico estremamente delicato e a un passo dal crollo di quel muro che, per quasi 40 anni, aveva tenuto una città spezzata a metà, in due mondi che rappresentavano due ideologie politiche e due sistemi economici in antagonismo.
La voglia di libertà prese il sopravvento e, a quattro mesi dal crollo, il 1 luglio 1989, 150 persone si riunirono a suon di musica in una manifestazione politica che di lì a poco sarebbe divenuta la LoveParade, la progenitrice di tutti gli eventi techno cittadini nel mondo, da poco rinata dopo un lungo periodo di giacenza col nome Rave the World.
2. Techno di Berlino patrimonio dell’UNESCO: perché è un traguardo importante?
È importante precisare che l’UNESCO non ha incluso tanto la musica in sé, quanto piuttosto l’intera rete di club, rave e street parade che hanno reso Berlino conosciuta a livello globale. La techno è un genere peculiare nel circuito delle feste e delle discoteche: non è solo ballo, ma è anche cultura del rispetto, della tolleranza e della valorizzazione sia delle soggettività marginalizzate (aspetto che lo avvicina tantissimo alla ballroom) che degli spazi industriali che, dopo lo shock petrolifero del 1973 e l’inizio della tendenza a delocalizzare gli stabilimenti nel global south, furono via via abbandonati lasciando dietro di sé vere e proprie cattedrali nel deserto, che avrebbero potuto, piuttosto, rinascere come spazi di aggregazione per i giovani in progetti di riqualificazione urbana. Come se non bastasse, quello della vita notturna è un settore profittevole per l’economia locale e nazionale: circa 1/3 dei turisti viene a Berlino appositamente per i club, che hanno portato 1,5 miliardi di euro alle casse dello stato impiegando, inoltre, più di 9000 persone. C’è dunque soltanto di guadagnato in questa decisione.
3. Clubcommission: una storia di ostacoli e traguardi
Sin dal primo LoveParade, la scena incontrò numerose difficoltà, tra i raid settimanali della polizia che divennero la norma, l’ostilità dei residenti e l’incomprensione dei politici, per cui la techno altro non era che una pulce che interferiva nell’ordine pubblico. Oltre a ciò, la crescente domanda di affitti nel centro di Berlino, e la speculazione immobiliare che ne conseguì, portò i club ad allontanarsi e a emarginarsi sempre di più in periferia. Al fine di proteggere la scena, si costituì nel 2001 l’associazione Clubcommission Berlin e.V., formata da attivisti che manifestavano contro la chiusura dei club.
Oggi l’aspetto militante è stato un po’ accantonato: la Clubcommission chiede, piuttosto, di avere voce in capitolo nel processo decisionale politico e di rendersi protagonista nella gestione dello spazio urbano, in coordinazione coi residenti in modo da evitare conflitti. A livello strutturale, l’associazione dispone di personale retribuito, ma il suo cuore pulsante è il lavoro dei suoi volontari. È inoltre suddiviso in vari gruppi di lavoro tematici: uno, ad esempio, promuove spazi sicuri diversificati e non discriminatori, fornendo perfino corsi di formazione al personale e ai buttafuori (insomma, un’utopia per il clubbing italiano). Portavoce di Clubcommission è Lutz Leichsenring, che nel 2022 ha presentato domanda per il riconoscimento della techno di Berlino come patrimonio immateriale dell’UNESCO: come ben sappiamo, la conferma è arrivata poco meno di due anni dopo.
La techno è il cuore di Berlino. L’UNESCO comprende, tra i patrimoni immateriali, attività legate alla creatività e alle tradizioni umane: se vi rientrano elementi di inestimabile valore come l’arte del pizzaiolo napoletano o quella dei suonatori dei corni da caccia, perché la techno di Berlino non dovrebbe? L’errore più comune dei nostri tempi è quello di associare univocamente l’idea di cultura a un passato remoto e incontaminato: la storia ci attrae perché ci catapulta in tempi da noi lontani, sotto tutti i punti di vista, stimolando l’immaginazione.
Antropologicamente parlando, però, la cultura altro non è che l’insieme delle pratiche materiali e delle conoscenze (poco importa se passate, presenti o future) che caratterizzano una società e la distinguono dalle altre: per quanto moderna e vicina a noi, dunque, la techno è stata determinante nel presentarci Berlino come la conosciamo oggi.
La Ministra della Cultura tedesca Claudia Roth ha detto: «Che si tratti di sottocultura o di artigianato tradizionale, tutto questo fa parte della ricchezza del nostro paese». Alla classe dirigente italiana, putrida e stagnante com’è, non rimane che prendere nota e imparare da queste parole.