Recensione di Vicarìa, il nuovo album di Valerio Bruner.
Nessuno nella vita ha commesso tanti peccati da meritare di dover morire due volte.
Vicarìa è uno dei quartieri più antichi di Napoli Est. Vicarìa è panni stesi e dedali di vicoli dove il sole non basta a fare luce, crocevia di etnie e di anime dannate che scontano il loro purgatorio in terra. Vicarìa è il nuovo album del cantautore napoletano Valerio Bruner che, mescolando blues, rock e jazz, racconta la sua città e il magma che le scorre dentro.
Un lavoro in cui la parola arte è declinata in ogni sua sfaccettatura, in cui la musica si fonde con la pittura e la fotografia. Ai colori di Antonio Conte è affidata la cover dell’album, nel bianco e nero delle fotografie di Sofia Scuotto e Arianna Di Micco sono racchiusi i luoghi e l’anima della città.
Dopo un ascolto in anteprima in una dimensione intima, privata, che si è tenuto il 20 maggio alla Piccola Galleria Resistente di Antonio Conte, Vicarìa è stato presentato ufficialmente il 26 maggio, in concerto, presso lo Spazio Comunale Forcella – Biblioteca Annalisa Durante. Un evento realizzato in collaborazione con il Festival del Cinema dei Diritti Umani e con il Comitato Studentesco Link Orientale, dedicato a Tanya Hatsura Yavorska, rifuguata politica e direttrice del Festival del Cinema dei Diritti Umani di Minsk, Bielorussia.
In una serata di fine maggio, Eroica Fenice intervista Valerio Bruner per immergersi in quell’ossimorico connubio tra bellezza e cruda verità che rende il suo lavoro così, meravigliosamente, viscerale.
Partiamo dal titolo, perché proprio Vicarìa?
Le storie che racconto nascono proprio in questa parte di Napoli, che è quella in cui vivo. La Napoli degli ultimi, degli emarginati, dei dimenticati. Una Napoli oscura, di frontiera, a cui volevo dar voce, perché Napoli è anche, e soprattutto, questo. Persone che hanno fatto scelte sbagliate, che vivono ai margini della società e proprio in quelle crepe, nel chiaroscuro dell’esistenza, ci ho trovato verità, visceralità e quella religiosità tutta napoletana che si rivolge incazzata e speranzosa a un Dio lontano, eredità forse del mondo greco. È questo che racconto in Priaveme a Dio, singolo di lancio e summa dell’album. È questo che racconto in Core mio, in Carne ‘e maciello.
Priavamo a Dio, priavamo a Dio, figli ‘e nisciuno priavamo a Dio.
Hai più volte definito questo lavoro un punto di arrivo, di consapevolezza. Cosa è cambiato dai tuoi inizi? Cosa è, invece, rimasto?
Ho iniziato immaginando e cantando i miei testi in lingua inglese, in Vicarìa il napoletano la fa da padrone. È cambiato sicuramente il mezzo espressivo, ma le tematiche restano le stesse: in Down the river racconto i sobborghi londinesi, gli emarginati che ci vivono, ne La belle dame la violenza di genere. Il turning point è stata Sempe Cca, la canzone dedicata a Mario Paciolla, amico ingiustamente scomparso. Pensa che anche in quel caso il testo era nato in inglese, ma volevo far arrivare il messaggio in modo immediato, senza bisogno di mediazioni, e così ne è venuto fuori Sempe Cca, che, come lo traduci in italiano?! La nostra lingua ha una potenza narrativa incredibile e non poteva non essere il napoletano la lingua di Vicarìa.
Restano quindi le tematiche sociali che ben sposano la tua concezione di fare arte…
Sì, per me essere un artista, un cantautore, significa vivere a pieno la propria realtà, lasciarne una traccia, denunciare e soprattutto raccontare storie, che, in un modo o nell’altro, inneschino riflessioni.
In un’era ormai sempre più digitale, che ha fatto della velocità il suo modus vivendi, Vicarìa si pone quasi come una sfida. Un viaggio artistico da assaporare lentamente.
Esatto. Oggi la musica è concepita come intrattenimento, come un qualcosa che ti accompagna mentre ti sbarbi, fai altro. Eppure io mi sono formato ascoltando e leggendo dischi. Con questo lavoro vorrei provare a recuperare il valore dell’artista, regalare un’esperienza che passi attraverso luoghi, immagini, parole, per poi arrivare all’ascolto. E per farlo ho unito più personalità artistiche animate da una stessa visione, gente che, come me, ancora crede, dal punto di vista artistico, di poter fare la differenza. Bellissimo è stato collaborare e registrare due pezzi con Brunella Selo e Marilena Vitale, persone a cui tengo e che stimo tantissimo.
Ed è proprio in quest’ottica che nasce l’etichetta discografica Santa Marea Sonora Records, no?
Sì, Santa Marea Sonora, che è Napoli e musica, musica e Napoli, nasce da incontri e scontri con Alessandro Liccardo, il mio produttore. Alla base c’è la voglia di riunire concretamente realtà artistiche che hanno ‘na cosa ‘a dicere, di collaborare con artisti che abbiano un impegno sociale, culturale: qui a Napoli c’è un magma artistico, un sottobosco di musica indipendente ricchissimo e per me il futuro è quello. Non sarà forse semplice, ma io, noi ci crediamo.
Quali saranno i prossimi passi di Vicarìa?
Vicarìa arriverà in luoghi che ho fortemente voluto, in nome della visione che c’è alla base di questo lavoro. Dopo lo Spazio Forcella, luogo fortemente simbolico, il 5 giugno sarò al carcere di Secondigliano, con l’associazione Gli ultimi saranno di Raffaele Bruno. Johnny Cash a 36 anni ha fatto un concerto a Folsom Prison… (sorride). Sentivo l’esigenza di fare un percorso simile, confrontarmi con persone che scontano i loro peccati, persone con cui devi essere vero e magari a cui regalare qualcosa di bello come solo l’arte sa essere. Il 21 giugno sarò invece al centro sociale Labas di Bologna e il 23 giugno al Rock’n’Roll di Milano.
Mentre Valerio racconta e si racconta, c’è una bella luce nei suoi occhi, vibrazioni positive che promettono grandi cose. E a noi di Eroica Fenice non resta che augurargli buon vento.
Viva l’arte, viva la musica!
Immagine in evidenza: Ufficio stampa