Bataclan, la mostra fotografica: intervista a Renato Aiello

Bataclan, la mostra fotografica: intervista a Renato Aiello

Bataclan, la mostra fotografica di Renato Aiello dal 2 al 15 ottobre presso il Complesso Monumentale di San Severo al Pendino. Un viaggio, o forse un altare, della memoria.

Una mostra intitolata Bataclan non ha bisogno di presentazioni eccessive e orpelli.
Si mostra e si rivela tragicamente da sé, solleticando l’abisso dell’orrore e della degenerazione umana.
Questa parola, ormai un agglomerato di lettere che rende livide le labbra, dà il titolo alla prima personale fotografica di Renato Aiello, che era, quasi per caso, sul Boulevard Voltaire il 13 novembre 2016, un anno dopo gli attentati terroristici di Parigi.
Osservare gli sguardi terrorizzati, le folle e i teatri della tragedia tramite i pixel di uno smartphone ci protegge dall’incubo, ci regala un timore ben protetto dalla cortina della tecnologia, ma trovarsi proiettati nei luoghi dove c’è stata la puzza della morte, del terrore e degli ultimi istanti di vite ignare e spezzate senza un motivo mentre si trovavano ad un concerto, è un vero e proprio bagno nel liquido amniotico di quella paura sorda.
Renato Aiello ha osservato le scene di quel lutto assurdo e insensato, e ha restituito quello stesso lutto in una miriade di fotogrammi celati in quel dolore così vero e assurdo.
E lì non c’è pixel che tenga.
Tanti sono stati i parallelismi, di cronaca e cinematografici, che hanno accompagnato l’allestimento della mostra e che hanno suscitato l’attenzione di Renato Aiello, in particolare la scena dell’orrore al concerto del Bataclan, che ricorda quella delle Nozze Rosse della serie tv Game of Thrones.
La musica è filo rosso che lega saldamente i respiri delle vittime al terrore: “Red Devil” al Bataclan e “Le piogge di Castamere” (inno della casa Lannister, che aveva ordito l’inganno) nella serie, melodie dal sapore tetro e quasi tragicamente profetico, un preludio alla morte.
In “Game of Thrones”, a cadere sono stati Robb Stark, sua moglie e sua madre, assieme a molti altri giovani, così come nel Bataclan ad essere recisi furono i fiori più promettenti della gioventù europea e non solo, i virgulti che avrebbero germogliato nel mondo di domani.
I Lannister mandano i loro saluti agli Stark, ma “il Nord non dimentica”.
Chi è che invece manda i suoi saluti al Bataclan e all’Europa? Abbiamo cercato di dare voce a questo, e molto altro, con Renato Aiello.
Il Nord non dimentica. E nemmeno l’Europa lo farà.

Intervista a Renato Aiello: il Bataclan visto attraverso i suoi occhi

1) Buongiorno Renato, innanzitutto grazie della disponibilità. Iniziamo con la prima domanda, la più banale o forse la più pirandelliana: chi è Renato Aiello e come si definirebbe?

Uno, nessuno e centomila. Scherzi a parte, sono un giornalista, addetto stampa e comunicatore a 360° (fotoamatore, videomaker, mi occupo di scrittura critica, narrativa, argomentativa e cronachistica). Mi definisco e sento di essere un grande appassionato d’arte, cinema (aspirante regista e film maker), letteratura e, ovviamente, fotografia, che ho riscoperto e cominciato a studiare più seriamente negli ultimi anni, conservando sempre l’occhio attento e preciso con cui giù componevo scatti e inquadrature prima di un corso che ho seguito e di una passeggiata ai Quartieri Spagnoli che fu per me una rinascita, una nuova pelle.

2) Renato Aiello, la tua mostra si chiama “Bataclan”. Il titolo si presenta perfettamente da sé. Come è stata la gestazione di questa mostra?

Non facile, a cominciare dalla scelta del titolo e dell’immagine di locandina, per cui avevo dubbi e temevo urtasse le sensibilità. In realtà pensavo, su osservazione infelice del mio ex curatore, che il progetto in sé potesse dispiacere, in particolare ai francesi. Timore infondato, considerando le belle parole e gli apprezzamenti arrivati e scritti soprattutto da turisti d’Oltralpe sui cahiers (quaderni) della mostra. Il curatore, neanche a dirlo, ovviamente non ha più fatto parte di questo progetto per motivi seri e personali. Burocrazia e tempistica a parte, credevo di non farla più ma poi mi son detto: “Quando mi ricapita un posto così bello in una via, quella dei musei, così trafficata e turistica?”. Pertanto nelle ultime settimane mi sono attivato come un pazzo al fine di portare a casa il risultato e offrirlo in visione a voi. Molte foto erano già lavorate, scelte e pronte da due anni, qualcuna da un anno, ma il grosso del lavoro di scrittura, raccolta e scelta finale è recentissimo.

3) Riallacciandoci al discorso del Bataclan, il 13 novembre 2016 ti sei ritrovato quasi per caso su quel maledetto Boulevard, dove vi era la commemorazione delle vittime. Raccontare il dolore non è una cosa semplice e deve essere stato straziante, puoi parlarci di cosa vuol dire vivere “dall’interno” un evento così tragico? Noi, da spettatori, possiamo solo immaginare ciò che fu, “protetti” dalla cortina di ferro degli schermi delle tv o dalle display degli smartphone

Sì, ero a Parigi per il Paris Photo, 20esima edizione, la prima per me, e l’intenzione di recarmi lì per ricordare le vittime della tragedia era forte e vivo già da fine ottobre 2016, quando pianificai (sempre in fretta) viaggio, volo e accredito stampa. Quella domenica 13 novembre 2016 non c’era sole, una cortina di nuvole grigie sospese, quasi in segno di rispetto per i cari, gli amici e il loro lutto composto e dignitoso, fatto di preghiere silenziose, fiori, candele e poesie delicatamente adagiate sul marciapiede del teatro. Immaginavo non sarebbe stato facile il primo anniversario, sicuramente l’anno precedente, quando appresi degli attentati, tardi devo ammetterlo (la sera del 13 novembre 2015 andai a letto presto, rarità per me), ne fui sconvolto. Ma quella mattina pigiare il tasto dell’otturatore in più di un occasione fu un pugno nello stomaco, soprattutto nella sequenza della jeune fille. La Parigi che avevo visitato per due estati precedenti non era più la stessa, anche le persone. Terribile.

4) Come è cambiata la tua vita da quel giorno?

Da quel novembre 2015 di cose ne sono cambiate molto: la paura di viaggiare, visitare un’Europa che dopo Madrid e Londra veniva squarciata al cuore stesso del continente, si è fatta sentire. Subito dopo il 2016 ho capito invece che quello era un progetto fotografico che doveva essere portato assolutamente a termine, al Pendino o altrove, e gli attentati susseguitisi per tutto il 2017 non hanno fatto altro che confermare la necessità di un’urgenza di racconto, riflessione, condivisione collettiva.

5) E la società che mutazione ha avuto dopo la sfilza di attacchi terroristici che si sono succedutisi in questi ultimi anni? Come si può pensare di arginare la psicosi, l’islamofobia e ciò che ne è conseguito? L’arte che ruolo dovrebbe giocare?

Le nostre società sono profondamente cambiate e il vento dei populismi e dei sovranismi lo dimostra. Forse Brexit stessa è in parte figlia di quella ferita e della xenofobia sviluppatasi (le fake news pre referendum ipotizzavano, e lo ricordo con tragico sorriso, un allargamento dell’UE fino in Syria e Iraq, praticamente l’Impero Romano ex novo, e la gente ci ha pure creduto, come mi faceva osservare un’amica emigrata in UK). Gli argini sono difficili da erigere e le cure ancora più ardue: dobbiamo parlarne, documentarci, conoscere, riflettere e superare la disinformazione, rigettare le conclusioni affrettate. L’arte e la fotografia possono aiutare in questo. Il fondamentalismo è elemento di tutte e tre le religioni monoteistiche, oggi saremo più secolarizzati dei paesi musulmani, ma non siamo indenni.

6) L’allestimento della mostra ti ha aiutato a esorcizzare i tuoi fantasmi?

Bella domanda. Non avendo più un curatore, che non sarebbe stato tra l’altro di alcuna utilità dato l’impianto concettuale che avevo in mente, ho dovuto fare tutto da solo, con una libertà espressiva e una creatività che è stata quasi catartica: la transenna con i fiori impacchettati e le candele che ho sistemato in un angolo, a ricordo di quella mattina triste e dolorosa, e l’installazione dei mattoni della costruzione europea che rischia di frantumarsi e spezzarsi sotto il peso soffocante delle catene fondamentaliste e fasciste, hanno esorcizzato un episodio di fondamentalismo “nostrano” che ho vissuto sulla mia pelle proprio intorno al 13 novembre 2015, data degli attacchi coordinati nella capitale francese. Purtroppo, e soprattutto nelle piccole comunità bigotte anche vicine alla nostra città, ci sono ragazzi coetanei che fanno del credo religioso un’arma di aggressione verbale e psicologica, persino e soprattutto nei social, per gelosia, invidia, vendetta e soldi, esattamente come accade con le guerre del petrolio in Medioriente. Leoni da tastiera che poi si battono il petto in Chiesa la Domenica e prendono la Comunione, istigando un attimo dopo altri bulli e cyberbulli a completare il loro lavoro sporco (in questo caso si trattava di omofobia e, pur non essendo io gay, il fraintendimento per loro era tale da farmi meritare una scomunica a tutti gli effetti). Ecco perché ci tengo particolarmente a condannare tutti i fondamentalismi e le interpretazioni errate e fanatiche della religione.


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A proposito di Monica Acito

Monica Acito nasce il 3 giugno del 1993 in provincia di Salerno e inizia a scrivere sin dalle elementari per sopravvivere ad un Cilento selvatico e contraddittorio. Si diploma al liceo classico “Parmenide” di Vallo della Lucania e inizia a pubblicare in varie antologie di racconti e a collaborare con giornali cartacei ed online. Si laurea in Lettere Moderne alla Federico II di Napoli e si iscrive alla magistrale in Filologia Moderna. Malata di letteratura in tutte le sue forme e ossessionata da Gabriel Garcia Marquez , ama vagabondare in giro per il mondo alla ricerca di quel racconto che non è ancora stato scritto.

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