“Così son diventato mio padre, ucciso in un sogno precedente”, cantava Fabrizio De André nella sua Canzone del Padre, sputando brandelli di carta e storie di impiegati crocifissi tra la realtà e il folle ghigno della storia. Ed è proprio l’alone ectoplasmatico di Fabrizio che si agita nelle pupille di Cristiano De André, il riflesso di un padre da amare ed uccidere, da superare e da dimenticare, o forse da ricordare o esorcizzare, come nelle migliori tragedie greche che ci restituiscono le pennellate più fosche dei rapporti tra figli e genitori.
Cristiano De André al MANN: il Festival si chiude con “La Versione di C.”, intenso memoriale del figlio d’arte più controverso degli ultimi tempi
Fabrizio ha accompagnato Cristiano tra le sale del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, il 25 aprile, nell’ultimo giorno di chiusura del Festival MANN/Muse al Museo: lo ha accompagnato tenendolo per mano, proprio come quando Cristiano era un bambino che suonava Il pescatore imbracciando una chitarrina, e lo ha scrutato con lo sguardo di un uomo che osserva un suo pari. Faber avrà osservato Cristiano con clemenza paterna o l’avrà giudicato spietatamente come il famigerato giudice, arbitro in terra del bene e del male? La nuda essenza di questo quesito è resa dagli occhi, dalla gestualità e dalla voce di Cristiano, somigliante a Fabrizio in modo impressionante: suo padre giganteggia nel timbro inconfondibile e profondo della voce, nel ciuffo che copre gli occhi, nel modo di scostarsi i capelli, persino nel modo di fumare la tanto attesa sigaretta dopo essere uscito dalla Sala Letteratura del Museo. Fabrizio è stato appiccicato alle dita di Cristiano, quando lui ha aperto le sue mani al pubblico assieme a Ilaria Urbani per consegnare una versione di se stesso ai limiti della psicanalisi. Tra le statue e gli affreschi, il pubblico ha raccolto le confessioni di Cristiano, che ha raccontato il suo libro, “La Versione di C.” , un’opera che ha il sapore di un memoriale scritto per perdonare e per perdonarsi: è la versione di Cristiano scritta dallo stesso Cristiano, dopo una miriade di versioni scritte da altre, non sempre coerenti e veritiere, e per la maggior parte non autorizzate. Abbiamo seguito un flusso di coscienza che ci ha portati dapprima nel substrato onirico dell’infanzia, dove un piccolo Cristiano, con le sue domande sognanti da bimbo, contribuiva a dare al suo papà l’idea per la canzone Oceano, per poi catapultarci nella Londra dei Pink Floyd, dove un giovane figlio d’arte provava a raccogliere brandelli di sé tra musica e cocci di identità. Il filo rosso del racconto si è poi riannodato alla pagina più torbida della storia dei De André, quella del sequestro. Cristiano ci ha raccontato della tragica fatalità per cui i rapitori avrebbero preso Dori Ghezzi assieme a Faber, anziché proprio lo stesso Cristiano, come avevano organizzato, e dello sciacallaggio di chi si nascondeva dietro l’anonimato per spaventarlo dicendogli che suo padre ormai era in un bidone della spazzatura. Gli occhi di Cristiano, vitrei e cangianti come le nuvole barocche o forse come gli incubi, si sono fatti seri al momento di parlare del carattere di suo padre: un carattere autolesionista (come recita un capitolo del suo libro), pronto a ribaltare e sviscerare una frase cento volte e a sfinirsi di domande, un temperamento incapace di godersi la vita. Fabrizio era l’amico fragile di se stesso. Sarà pur stato un padre da amare e uccidere, ma la fiducia verso suo figlio è stata palese in più di un’occasione: è il caso dell’album Anime Salve. Il pubblico del Museo ha scoperto che Le acciughe fanno il pallone è una pennellata di Cristiano al disco, che conferisce a questo brano un suono etnico, dal sapore tunisino e turco al tempo stesso, tra percussioni e guizzi che rendono musicalmente il rincorrersi delle acciughe che salgono a galla. E pensare che Fabrizio nemmeno voleva che suo figlio facesse musica, avrebbe voluto proteggerlo dal peso di un cognome che anziché spianargli la strada, gli avrebbe costantemente straziato le viscere con il veleno del paragone e del confronto. L’avrebbe voluto veterinario, ma Cristiano sentiva forte il richiamo sordo del sangue e dei primordi: studiò al Conservatorio per dimostrare a suo padre che avrebbe meritato il suo posto del mondo, al di là del cognome che era impresso sulla sua fronte come un marchio e che sembrava essere l’unico “intralcio” alla sua voglia di emozionarsi raccontando storie e imbracciando quella chitarra che fin da piccolo aveva preferito ai giocattoli.
De André canta De André nella Sala Meridiana: una confessione in musica
Il memoriale continua poi la sera nella Sala Meridiana del Museo Archeologico. Luci che squarciano il buio e il silenzio quasi sepolcrale della grande e maestosa sala, una platea ben ordinata e desiderosa di abbeverarsi alla fonte della voce di Cristiano, un palcoscenico pronto a diffondere nell’atmosfera lampi di musica e suggestioni. Cristiano fa il suo ingresso sul palco: è alto come sempre, e il suo ciuffo inconfondibile gli accarezza il viso. Al suo fianco c’è il musicista Osvaldo Di Dio, e dietro di lui c’è il rosso accesso che rompe il buio, e che all’occorrenza si trasforma in verde acido o blu cobalto. Imbraccia la sua chitarra e comincia con Se ti tagliassero a pezzetti. Ciò a cui il pubblico assiste è una trasfigurazione che fa tremare anche i midolli più duri: Cristiano sembra aver raccolto lo spirito, la voce e anche il modo di modulare le frasi delle canzoni del suo papà, che fa capolino tra le sue fattezze e i suoi tratti somatici, quasi affacciandosi da una finestra spalancata sul mondo. Quella finestra sono gli occhi di Cristiano. La platea è impressionata e non sa più riconoscere il figlio dal padre, come se fossero due gemelli siamesi sovrapposti che respirano dalla stessa pancia. Quando il figlio intona “Signorina libertà, signorina fantasia” qualcuno piange. Qualcuno vede l’ombra tremolante di Faber, qualcun altro invece vede per la prima volta suo figlio su quel palco. Cristiano abbandona la storia delle labbra di miele rosso e del tailleur grigio fumo e prosegue con Una Storia Sbagliata, La Canzone di Marinella, Un Giudice, Creuza De Ma, raccontando le storie del suo papà e donando alla folla l’occasione di vedere Faber agitarsi tra le pieghe dei suoi occhi. Arriva anche il momento di cantare un suo pezzo, Invisibili, il cui significato autobiografico è talmente palese da poterlo assaporare sulla lingua, col suo carico dolce e amaro. Il concerto si conclude, il festival anche, e Cristiano riceve il titolo di ambasciatore del Mann. Una chiusura commossa, intima e introspettiva, per un festival che ha saputo creare aggregazione, partecipazione e cultura viva e palpitante.
Una volta Vincenzo Mollica chiese a Fabrizio De André che cosa provasse ad essere uno dei pochi artisti del Novecento ad aver avuto tanta fortuna in vita. Gli chiese cosa gli mancava, dato che aveva tutto. Fabrizio, dal canto suo, gli rispose che avrebbe solo voluto riabbracciare suo padre.
Cristiano sarebbe stato d’accordo con lui.