In via Posillipo, a Palazzo Petrucci, è andato in scena martedì scorso FoodArtish, un evento a tema “cibo e racconti”, dove il rapporto fra l’arte culinaria e quella della scrittura ha vestito i panni del protagonista. Il ciclo di appuntamenti organizzato dalla casa editrice Malvarosa si è posto così l’obiettivo di rappresentare un momento di convivialità, di crescita e arricchimento sui temi propri della tradizione napoletana.
Alla serata, moderata dal giornalista Luciano Pignataro, erano presenti volti noti del mondo letterario e gastronomico, tra cui Lejla Mancusi Sorrentino, Maurizio de Giovanni, Gino Sorbillo, Santa di Sarno, Mario Avallone, Salvatore Bianco, Alessandro Condurro e Lino Scarallo, chef del Palazzo Petrucci (stella Michelin), che a fine serata ha dato prova di tutto il suo genio culinario, offrendo una selezione dei suoi migliori piatti affiancati dai vini dell’azienda La Guardiense.
FoodArtish: una serata tra cibo e racconti
A rompere il ghiaccio fra gli ospiti è stata Lejla Mancusi Sorrentino, autrice e studiosa gastronomica, che ha tenuto un interessante discorso sulla genesi della minestra maritata, uno dei piatti più antichi e rappresentativi della tradizione napoletana. La sua prima apparizione risale infatti al XIV secolo, in un antico ricettario scritto in latino e intitolato: “Il liber de coquinia”. Nel libro viene spiegato al lettore come bollire le verdure con la carne (un osso di prosciutto conservato e usato più volte), rappresentando di fatto l’antenato del procedimento attuale della minestra maritata, un piatto molto ricco se ben cucinato. In effetti proprio l’alto costo, racconta Sorrentino, ha fatto sì che il popolo, negli anni, si sia adattato al consumo della pasta, molto più economica.
La pietanza si diffuse fra i napoletani soprattutto grazie all’alta reperibilità delle verdure sul territorio e agli insegnamenti lasciati da Pitagora. Il filosofo greco, infatti, era solito raccomandare ai suoi discepoli di mangiare soltanto ciò che la natura produceva, evitando la carne che “offuscava la mente”. Essendo il territorio napoletano parte della Magna Grecia, questo principio pare si fosse ben saldato nell’immaginario collettivo, tanto da far guadagnare ai napoletani l’appellativo di “mangiaverdure”. A confermare questa tesi è anche il filosofo Benedetto Croce che, imbattendosi nella commedia “la vedova”, ha potuto constatare come l’appellativo venisse utilizzato proprio per riferirsi al popolo partenopeo.
Ad Alessandro Condurro (L’Antica Pizzeria Da Michele) è toccato poi il compito di indirizzare FoodArtish verso un altro dei cibi cardine della tradizione napoletana: la pizza. In particolare Condurro ha voluto riprendere il discorso dell’economicità accennato da Lejla Mancusi Sorrentino, sostenendo come la pizza a ruota di carro sia nata proprio per assecondare le esigenze del popolo, che voleva “mangiare di più” allo stesso prezzo di sempre.
Gino Sorbillo ha voluto soffermarsi invece sulla pizza come momento di incontro e di interscambio fra pizzaiolo e cliente. “D’altronde a Napoli si dice facimmece ‘na pizza e non mangiammece ‘na pizza“.
FoodArtish ha trovato poi conclusione nelle parole di Maurizio De Giovanni, che si è concentrato sul rapporto fra cibo e letteratura. Lo scrittore napoletano è partito proprio da quest’ultima, affermando che la lettura sia un’arte a sé, che richiede un elevato grado di attenzione da parte di chi ne fruisce, a differenza magari di uno spettacolo teatrale o cinematografico che permette allo spettatore di “potersi distrarre per qualche secondo, scambiando una parola con il proprio vicino o guardando l’orario sul cellulare. Mentre si legge un libro, invece, questo non è possibile, dato che nel momento in cui si inizia soltanto a dar forma ai propri pensieri è necessario tornare indietro e rileggere dal punto in cui ci si è allontanati mentalmente dalle pagine“.
De Giovanni ci fornisce, dunque, uno degli antidoti alla tendenza del lettore di allontanarsi dal racconto: inserire al suo interno degli elementi identitari, uno su tutti il cibo. “Il cibo è un oggetto, ‘o magnà un bisogno fisico. Per questo motivo i napoletani trovano nell’atto del cibarsi, oltre a un elemento identitario, anche un momento di coesione sociale” conclude il suo discorso De Giovanni.
In effetti assaggiare un buon cibo è proprio come leggere un libro scritto bene: permette di viaggiare e immaginare nuovi mondi, offrendo un’esperienza che molto spesso sottovalutiamo. Presi dagli impegni e dal tempo che scorre ci si ritrova a consumare di fretta ciò che si mangia, dimenticando che il cibo, così come l’arte, sia una dichiarazione d’amore verso noi stessi.
Fonte immagine: Breaking Egg Dough – Free photo on Pixabay