Humans of Naples è il progetto artistico di Vincenzo Noletto, giovane fotografo di 29 anni in rampa di lancio. Venerdì 22 settembre approderà allo Slash Art/Msic, locale di via Bellini, nel cuore pulsante di Napoli. Instant sarà una mostra fotografica vuota, in cui tutti i visitatori diventano soggetti fotografati, e quindi parte dell’evento stesso. Sulle orme del cinema e del teatro, un curioso esperimento di metafotografia, con l’arte che diventa protagonista di se stessa. Instant è stata l’occasione per scambiare quattro chiacchiere con Vincenzo Noletto.
Humans of Naples e Vincenzo Noletto
Ho letto che il progetto Humans of Naples è nato in seguito a un tuo viaggio in Irlanda. Al ritorno hai deciso che fare il fotografo sarebbe stata l’unica cosa che volevi fare nella vita. In virtù di questo, cos’è per te la fotografia?
Gli ultimi anni mi hanno insegnato tante cose, tutte riassumibili in una sola frase: non smetti mai di essere un fotografo. Se abbracci la fotografia come hanno fatto in tanti (e pure io) è tutto un susseguirsi di foto su foto su foto, ti cambia il modo di vedere le cose, di spiegarti, di raccontare, di rendere partecipi e di inserirti in altre realtà. Per buona parte della mia vita ho seguito e visto le cose di tutti i giorni, dalle più piccole alle più grandi, con gli occhi degli altri e non ho mai cercato una verità che fosse solo mia, mi facevo bastare quella degli altri, una qualsiasi, standard. Poi d’un tratto ho conosciuto una persona che ha tirato fuori la mia incapacità di spiegarmi, che mi ha fatto riflettere su ogni aspetto della mia vita poiché davvero non sapevo cosa mi piaceva e cosa non mi piaceva (non posso mai dimenticare il momento in cui arrivò a chiedermi persino il motivo per cui mi piaceva la pasta con la salsa… ed io non seppi rispondere). Avvicinarmi alla fotografia ha reso tutto questo molto più facile, mi ha permesso di racchiudere storie e concetti ovvi a miei occhi ma di difficile spiegazione, e quindi comprensione. S’è innescato un meccanismo a catena grazie alla fotografia, mi ha permesso di capire cosa fosse importante e cosa non lo fosse e se oggi sono un fotografo forse lo devo proprio alla fotografia stessa. Che cos’è per me la fotografia? È il mio passato, il mio distacco dal passato, il mio presente e credo il mio futuro.
Veniamo a Humans of Naples. Una mostra “vuota”, dove gli spettatori sono anche i protagonisti dell’evento. Dopo il metateatro, ecco la fotografia protagonista di se stessa. Come è venuto in mente questo progetto?
Diciamo che non sono uno troppo metodico, sono colpito dalle idee nei momenti più strani. Ad esempio l’idea di Humans of Naples è nata mentre lavavo una padella dopo cena, mani sotto l’acqua corrente e spugnetta zuppa di sapone. Ora che mi ci fai pensare devo essere stato suggestionato da JR e il suo Inside Out Project (non quello surrogato che abbiamo visto a Napoli, parlo di quello dei primi anni dove le foto venivano scattate e installate quasi contestualmente), qualche lavoro simile fatto da Settimio Benedusi e Oliviero Toscani, e sicuramente altri che adesso non ricordo ma che sono in qualche angolo della mia memoria. Il fatto è che di solito le persone che scatto non guardano quello che ho visto in loro, non mostro quasi mai le foto che scatto. In più, oggi le foto che tutti scattano, tra cellulari e macchine fotografiche, rimangono stipate nelle memorie degli smartphone o accatastate in hard disk. Dimenticate, mai più viste. Io credo che la vera fotografia sia quella che si tocca (è ovvio che il discorso è un filo ampio, dipende sempre dagli ambiti), quella su carta fotografica, quella non riprodotta da un supporto retroilluminato e in questo la fotografia istantanea mi permette di colmare il gap tra i soggetti e il progetto, di poter subito mostrare quello che i soggetti dicono col corpo e con l’espressività, di prendere parte a quello che è diventato un enorme album di famiglia, e in casa mia le foto dei miei ricordi più cari sono tutte su carta fotografica. Quindi, perché non su istantanea?
Hai citato smartphone e hard disk. Al giorno d’oggi milioni di persone condividono ogni giorno foto sui social network. Si passa dagli scatti di Facebook alla quotidianità delle storie di Instagram. Pensi che il web abbia cambiato la fotografia?
Si e no. La fotografia è diventata più democratica, tutti oggi possono scattare con più facilità e questo è un bene. Il “male” è che tutti si sentono fotografi, che la professione è screditata e buttata giù da chi dovrebbe pagare un fotografo piuttosto che “rubare” le foto dai social (vedi i giornali che condividono le foto di utenti/amici/parenti/fotoamatori o come volete chiamarli). Fortunatamente ci sono cose che differenziano il fotografo da un non fotografo… e chi ha davvero bisogno di foto, e non immagini, c’è. La fotografia esiste, è viva e vegeta: è solo immersa in un mare di immagini.
Nei tuoi ritratti i protagonisti sono gli abitanti di una città, Napoli, che più che una città è un teatro a cielo aperto, dove ognuno sembra svolgere un proprio ruolo calandosi alla perfezione nella parte. Che rapporto hai con la città?
Nell’ultimo anno non l’ho potuta vivere tantissimo per via di una caviglia rotta a giugno scorso, sono rimasto 6 mesi completamente fermo. Vedo voglia di rivalsa e stallo totale allo stesso tempo e vorrei che la prima fazione sia più forte della seconda. È la mia città e certe volte mi fa rigirare le budella… ma non ci posso fare niente, la amo.
Ultima domanda. Cosa consiglieresti ai giovani che vogliono sfondare nel mondo della fotografia?
Partendo dal presupposto che io a 29 anni, nel mondo della fotografia, non sono nessuno (ma come mia “scusante” posso dire di aver cominciato un po’ tardino rispetto alla media). Quello che posso dire a chiunque voglia approcciarsi alla fotografia con lo scopo di farne una professione è di studiare tanto, di guardare mostre, di leggere libri di chi ha fatto la storia della fotografia, di guardare film, di scattare meno e sperimentare la pellicola in tutte le sue forme, di dare importanza alla cultura dell’immagine piuttosto che ai forum di fotografia in cui è più importante lo strumento che la foto in sé, di prendersi il tempo che ci vuole senza mai correre. La tecnica la imparano tutti (e nemmeno), esporre non è difficile, quello che è importante è l’impronta autoriale che in maniera involontaria imprimi in ogni scatto, quello che ti renderà riconoscibile agli occhi degli altri e questo è possibile solo se hai davvero qualcosa da dire. E per quelli che non vogliono farne una professione? Le stesse cose.