Visioni interiori: tra caos e identità è la nuova mostra di Laser, al secolo Vincenzo De Rosa, cresciuto nel quartiere partenopeo delle Fontanelle. L’artista ci fa vivere un intenso viaggio nell’animo umano attraverso forme, colori e paesaggi mentali ricchi di simbolismi. È possibile osservare le tele, caratterizzate da colori forti e tratti decisi, da Giosi – Spazio 104, nel cuore del centro storico di Napoli. La mostra, ad ingresso libero – curata da Fabiana Carelli – è visitabile dal 12 al 30 ottobre, tutti i lunedì, mercoledì e venerdì, dalle 15:30 alle 19:00.
«Il desiderio di raccontare» – spiega Laser – «si traduce spesso nella necessità di scrivere sulla tela, di indicare un percorso per identificare e ricostruire la storia all’interno di un’immagine psichedelica e caotica».
«Lei ha detto che dipinge per raccontare. Qual è la storia che racconta oggi con Visioni interiori: tra caos e identità»?
«Sono tutte storie che nascono da ricordi della mia gioventù nel Rione della Sanità di Napoli, di volti che vedevo per strada, cose che mi colpivano. Nasce tutto da ricordi semplici, non programmo niente. La mia è una pittura istintiva, la fase di progettazione formale è praticamente inesistente. Quando mi avvicino alla tela, non ho idea di cosa farò; mi lascio guidare da ricordi e impressioni che sorgono spontanei, come il battesimo di mia cugina o l’uscita di un album dei Sex Pistols. È tutto in continua evoluzione, gioco con i colori e seguo i ricordi man mano che riaffiorano nella mia mente. Il Caos è ciò che più si avvicina alla mia pittura, ed ogni quadro racconta una storia di identità in evoluzione.»
«Quali influenze hanno modellato il suo stile?»
«Il mio stile è indubbiamente influenzato dagli espressionisti tedeschi dei primi del Novecento: mi piace “imbruttire”, “deformare”, rendere quasi indecifrabili le figure, utilizzando, però, un linguaggio più simile a quello dei writers. Lo definirei visionario, psichedelico. Preferisco il tratto grafico rapido e ininterrotto, che cerco di fondere con la materia pittorica, alla ricerca di una forma di caos controllato.
Per quel poco che so dell’arte, e ne so davvero pochissimo, l’arte è estremamente soggettiva. Ognuno ha una sua visione, e la nozione stessa di opera d’arte può avere significati diversi per persone diverse. Perciò io dipingo ciò che mi piace, seguo il mio gusto personale; mi è capitato di distruggere quadri che altri consideravano bellissimi, semplicemente perché non piacevano a me.»
«Pensa anche lei che i suoi quadri abbiano un impatto molto più forte dal vivo che in foto?»
«Sì, anch’io ho avuto quest’impressione. Il mio studio è piccolo e disordinatissimo, tutto sporco, pieno di quadri – anche da questo viene il nome della mostra “Visioni interiori: tra caos e identità”. A volte mi capita di appoggiarmi a un quadro ancora fresco e di sporcare il muro, e proprio da quello nasce l’ispirazione per un’altra opera. È tutto molto intuitivo, senza programmi, non c’è nessuna regola. È una pittura reale, immediata, istintiva; credo di non aver fatto niente di spettacolare, detesto chi si vanta troppo. Non pretendo di suscitare nessuna reazione in particolare, i gusti sono soggettivi. Però riconosco che questi quadri si fanno guardare, sono vanitosi, al contrario di me.»
«C’è un’opera tra queste di Visioni interiori: tra caos e identità con cui ha un legame particolare?»
«Sì, quella che sento più vicina è questa sul mio quartiere (foto), perché di solito vado di getto, finisco un’opera in 2 ore, massimo una giornata, mentre su questa ho dovuto lavorare di più. Volevo rappresentare i teschi del Cimitero delle Fontanelle, e questo richiedeva un’attenzione particolare, perché ogni famiglia lì si prende cura della propria testa. Ho dovuto studiare un po’ per dargli il rispetto che si meritavano, non volevo farli sembrare cattivi o morti, volevo farli ritornare in vita. Da piccolo, quando a volte facevo il chierichetto, mi mandavano in punizione a pulire i teschi, e allora iniziavo già ad immaginare la vita di queste persone, cosa indossavano, quali erano i loro sogni. Avevo un rapporto con loro come con delle persone vive, li chiamavo per nome. Se dovessi portarmene uno a casa sceglierei questo, proprio come ricordo della mia infanzia e del mio quartiere Sanità.»
Fonte immagine: archivio personale