Giorgio Gaber, nato il 25 gennaio 1939, non solo è stato uno tra i primi interpreti del rock and roll italiano, chitarrista e cantautore pluripremiato, ma anche drammaturgo, attore e regista teatrale tra i più importanti del secondo dopoguerra in quanto creatore del genere “teatro canzone”.
Nella sua arte, egli si è ispirato ad alcuni jazzisti statunitensi come Barney Kessel, Tal Farlow e Billy Bauer. Lavorerà in seguito con nomi importanti come Adriano Celentano, Enzi Jannacci e Luigi Tenco esibendosi con loro nei locali e sperimentando per la prima volta le sue doti di cantante. Egli infatti prima di quelle occasioni si era cimentato esclusivamente nella pratica dello strumento che esercitava sin dalla tenera età per contrastare una lieve paralisi alla mano causata dalla poliomelite: «Tutta la mia carriera nasce da questa malattia» dirà in seguito.
Nel 1958 inizia una carriera da solista con l’incisione di quattro brani: Ciao ti dirò (rock), Da te era bello restar, Be-Bop-A-Lula e Love Me Forever per poi formare u duo “I Due Corsari” con Enzo Jannacci. Giorgio Gaber, nato il 25 gennaio 1939, raggiunge il successo con i testi di Umberto Simonetta ma ascoltando Jacques Brel, cantautore francese, si renderà conto che la musica leggera italiana manca di un certo spessore culturale. Infatti quasi tutti i personaggi più influenti della canzone italiana cercano un equilibrio tra le influenze americane (jazz e rock e la canzone francese), trovandolo nel cantautoresimo.
Giorgio Gaber partecipa quattro volte a Sanremo nel corso degli anni sessanta. Si cimenta anche nella canzone napoletana con ‘A Pizza e Ballata de suonne. Inoltre idea, conduce e partecipa a molte trasmissioni televisive contribuendo al lancio di Franco Battiato.
Dopo alcuni successi come “Com’è bella la città” nella quale si rappresentano tematiche sociali ed altri tratti da autori latini, inizia un nuovo percorso artistico sul palcoscenico: «Mi stavano strette le limitazioni di censura, di linguaggio e di espressività della televisione e ho scoperto che il teatro mi era più congeniale, mi divertiva di più, mi permetteva un’espressione diretta, senza la mediazione di una telecamera frapposta tra l’artista e il suo pubblico». Nel 1970, Gaber rinuncia al successo televisivo per dedicarsi al teatro canzone anche grazie alla passione che nutriva per il teatro dell’amico Dario Fo. Nasce così il Signor G., un nuovo personaggio, un uomo come tutti, distante dall’affabulatore televisivo.
Il teatro è un mezzo che consente a Giorgio Gaber di dire ciò che pensa attraverso il proprio pensiero. La formula, comprende, in un primo momento, solo canzoni e piccoli interventi parlati che si trasformano in monologhi nei quali si affronta un tema. In seguito agli eventi del 1968, egli descrive l’individuo come un soggetto in crisi allo ricerca della propria identità e libertà che si rivela non antagonistica verso il sistema. Dopo più di un decennio, questo tipo di stimoli si fanno si fanno ripetitivi, l’artista subisce un involuzione di tutte le idee che lo avevano caratterizzato e che avevano avuto più risonanza.
Su questo strascico, verso il nuovo millennio, Giorgio Gaber si proporrà al pubblico con una maggiore durezza dei temi come risultato di una profonda analisi che «serve per farmi capire gli altri ma anche per resistere all’omologazione imperante». Tutto questo è lampante nella realizzazione di “La mia generazione ha perso” e l’ultimo album “Io non mi sento italiano“, registrato prima di essere tradito dalla cagionevolezza che lo caratterizzava sin da bambino.
Ci sarebbe molto altro da dire sull’immenso artista che è stato Giorgio Gaber rispetto ai temi affrontati in campo sociale e non solo nell suo unico ed innovativo “teatro canzone”. Per questo non perdetevi il nuovo docufilm “Io, noi e Gaber” su RaiPlay.
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