Una nuova sfida mortale è comparsa su TikTok: la Blackout Challenge, un “gioco” che consiste nell’autoinfliggersi soffocamento utilizzando una sciarpa o una cintura, e resistere il più possibile prima di lasciare la presa. Lo scopo primario della prova estrema non sarebbe il suicidio, sebbene la probabilità di perdere la vita sia altissima, ma piuttosto raggiungere un fantomatico stato di euforia, dovuto al rilascio di endorfine da parte del corpo, a cui farebbe seguito la perdita parziale di coscienza. Ad accendere i riflettori su tale fenomeno è stato, nella giornata di mercoledì, il ricovero di una bimba di Palermo, di appena 10 anni, nel reparto di rianimazione dell’ospedale “Di Cristina”. Purtroppo, nonostante i tentativi dei medici, per la piccola non c’è stato nulla da fare e ieri la bimba è stata dichiarata clinicamente morta. I genitori hanno acconsentito all’espianto degli organi, mentre le autorità giudiziarie hanno proceduto al sequestro dello smartphone della vittima, al fine di indagare a fondo sulla vicenda.
La Blackout Challenge non è l’unica sfida mortale lanciata sui social
Gioco chiking, Batman, Eyeballing. E ancora Planking, Blue Whale, Bird box challenge, sono solo alcune delle numerosissime sfide che dilagano tra i giovanissimi sul web, rimbalzando da un social all’altro, alimentando quello spirito di emulazione che contraddistingue l’età adolescenziale, ed amplificato oltre misura dall’uso dei social. Lo stesso Tiktok, attualmente la piattaforma più utilizzata tra gli adolescenti, si basa esclusivamente sul concetto di ripetizione: gli utenti copiano i contributi di altri, in un loop infinito in cui tutti sono il clone di qualcun altro, attraverso la ripetizione di gesti ed espressioni. Se tuttavia, nella maggior parte dei casi tale meccanismo è per lo più innocuo, può diventare potenzialmente letale quando si superano i limiti. È accaduto con la Blue Whale, poi con il fenomeno Jonathan Galindo e, infine, con la Blackout challenge, di cui si parlava già nel 2018.
Cosa si nasconde dietro la challenge?
Legare la diffusione di questi comportamenti al solo spirito di emulazione è sicuramente riduttivo. Uno dei fattori determinanti è da ricercare nello spirito di ribellione tipico degli adolescenti: in virtù di questo, il voler superare i limiti imposti si configura come un modo per affermare se stessi, emancipandosi dalle figure di autorità e, allo stesso tempo, farsi accettare dal gruppo. Questo processo, che fa parte del percorso di crescita, può essere pericoloso per quei soggetti più fragili ed influenzabili, più predisposti a lasciarsi imbrigliare dalle dinamiche distruttive e disfunzionali di alcune di queste sfide.
Altro fattore alla base di molte sfide o tormentoni (come quello dello shifting) potenzialmente letali, compresa la Blackout challenge, è il bisogno inconscio di esorcizzare le proprie paure, prima tra tutte quella della morte. Spingersi sull’orlo del precipizio dà l’illusione di essere potenti, invincibili. Paradossalmente, quindi, gli adolescenti sfidano la morte per esorcizzarla e liberarsi dalla paura di essa. Tuttavia, come dimostra il caso della bambina di Palermo, non sempre questi meccanismi hanno esito felice. In conclusione, dietro quelle che sembrano delle stupide bravate ci sono l’insicurezza, il desiderio di accettazione, lo spirito di emulazione e la volontà di emancipazione tipica dell’età adolescenziale.
Sta agli adulti, a questo punto, cercare di controllare la situazione, per evitare che episodi come questo di Palermo si ripetano. L’arma più forte a disposizione è il dialogo costruttivo: tenere sotto stretto controllo un adolescente, privandolo dello smartphone o del computer, avrebbe come unico effetto quello di isolarlo dai coetanei, e alimentare un certo “odio” nei confronti dell’adulto oppressore. Al contrario, abituarsi al dialogo aperto, venirsi incontro, contribuisce acreare un legame non solo affettivo ma anche empatico, all’interno del quale l’adulto può guidare l’adolescente verso comportamenti più consapevoli. Non liquidare questi comportamenti come prodotti da menti vuote e annoiate è il primo passo per arginare un fenomeno che, purtroppo, appare destinato a crescere sempre di più.
Immagine: La Repubblica