Codice rosso: un bilancio positivo?

Questo articolo è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla

Quando ho pensato di scrivere questo articolo ho abbozzato degli appunti con un sacco di numeri: leggi, anni, percentuali statistiche.

Avrei avuto l’opportunità di intervistare una Pm che lavorava nel Dipartimento “Vittime vulnerabili” della Procura di Palermo e volevo essere ben preparata sull’argomento.

Più annotavo testi normativi afferenti il codice rosso, più si faceva strada in me l’idea che l’intervista dovesse diventare un confronto, una chiacchierata tra donne, giuriste e anche madri sul tema della violenza di genere.

I numeri dei femminicidi del 2023 sono scolpiti ormai nella memoria di tutti.

Quello che vorrei provare a capire è se gli strumenti giuridici che offre il nostro ordinamento sono abbastanza efficaci. Se ci sono degli aspetti da migliorare, se la normativa sul codice rosso è adeguata alla grave emergenza cui stiamo assistendo.

La dottoressa mi riceve un sabato in tarda mattinata, nella sua stanza in Procura. La ringrazio per la disponibilità, per aver sottratto il (poco) tempo libero che le lascia un lavoro decisamente impegnativo, per ricevermi.

Le spiego lo scopo del mio articolo, l’iniziativa a cui ho aderito, ma preciso che vorrei dare un taglio sia giuridico che umano alla nostra chiacchierata.

Le dico che conosco abbastanza bene la normativa sul codice rosso, sono interessata più agli aspetti pratici e applicativi. Quello che vorrei è raccogliere l’opinione di chi, per 10 ore al giorno, si è occupata dei reati di codice rosso, ascoltare la sua esperienza. Provare a fare un bilancio di una legge entrata in vigore da quattro anni e mezzo.

Dottoressa per quanti anni si è occupata di “codice rosso”?

Mi sono occupata di codice rosso sin dall’entrata in vigore della legge, a luglio 2019, e sino a pochi mesi fa.

Come funziona il dipartimento “Vittime Vulnerabili”?

Il dipartimento è composto da una decina di PM, è previsto un calendario mensile, ogni giorno ci sono 2 pubblici ministeri di turno, tranne il sabato che ce n’è uno e nessuno la domenica. E’ così che vengono assegnati i fascicoli.

Qui emerge la prima criticità nel sistema: ogni giorno viene iscritta una media di 15/20 procedimenti penali incardinati come “codice rosso” e assegnati ai PM di turno. La Polizia Giudiziaria trasmette con un canale preferenziale il fascicolo a cui il codice rosso viene attribuito dal Procuratore Aggiunto. I fascicoli che vengono iscritti con il codice rosso sono veramente tanti e ogni P.M. ha un numero corposo di fascicoli.

A questo punto anticipo nella mia scaletta una delle domande che mi ero preparata.

Segue un criterio particolare per decidere quali persone offese sentire personalmente e quali delegare alla Polizia Giudiziaria?

Avvocato, ha centrato l’argomento: se potessi le denuncianti le ascolterei tutte personalmente, ma come potrà immaginare è impossibile data la mole di fascicoli che seguiamo. Una cosa è leggere i verbali di sommarie informazioni rese dalle vittime, ben altra sarebbe ascoltarle personalmente. Questo per sentire non solo quello che dicono, ma come lo dicono, la loro gestualità. Sarebbe importante per me ascoltarle tutte personalmente, ma è materialmente impossibile. Consideri che ogni audizione dura minimo 2/3 ore, provi a moltiplicarle per tutti i fascicoli che ci vengono assegnati. Non basterebbero giornate intere, senza contare tutte le altre attività, come partecipare alle udienze e tutto il resto del nostro lavoro.

Ecco, il criterio che seguo è quello di ascoltare le presunte vittime nei casi più incerti. A volte quella che dalla denuncia sembra una narrazione inverosimile, sentendola dalla diretta interessata, ponendo le domande giuste, guardando la vittima, il racconto diventa coerente. Sorrido, mi viene in mente una frase che Conan Doyle fa dire a  Sherlock Holmes “Una volta eliminato l’impossibile ciò che rimane, per quanto improbabile, dev’essere la verità.”.

La P.M. poi aggiunge  che nei casi di audizione della persona offesa nei reati di codice rosso, dall’entrata in vigore della Cartabia, è obbligatorio a pena di inutilizzabilità delle dichiarazioni che l’audizione venga quantomeno audioregistrata ove non sia possibile la videoregistrazione.

E’ uno strumento di tutela per la persona offesa, dato che la verbalizzazione per forza di cose è un riassunto di quanto dichiarato. Gli aspetti pratici, in sede processuale, dell’utilizzo della video o fonoregistrazione di tali dichiarazioni, mi spiega che sono ancora poco chiari.

Quali sono secondo lei gli strumenti più efficaci che avete a disposizione per la tutela delle vittime vulnerabili?

Il braccialetto elettronico sicuramente è uno strumento efficace e tra l’altro con la recentissima Legge 168/2023 la sua applicazione è divenuta obbligatoria nei casi di divieto di avvicinamento. Capitano purtroppo falsi allarmi, ma è comunque un mezzo utile a tutela delle vittime.

Dottoressa, a poco più di 4 anni dalla sua entrata in vigore, com’è per lei il bilancio del codice rosso?

Al netto di alcune criticità tecniche già evidenziate, le posso dire che per me il bilancio è positivo. La normativa consente un intervento immediato dell’Autorità giudiziaria e della Polizia Giudiziaria che in questi casi è importantissimo. Le vittime di reati disciplinati dal codice rosso vengono sentite immediatamente, già anche in sede di pronto intervento. Questa tempestività può fare la differenza consentendo l’applicazione di misure cautelari a tutela della vittima.

Affrontati gli aspetti tecnici della normativa, alcuni dei quali di recentissima applicazione, affrontiamo l’argomento forse più spinoso anche se meno giuridico: perché spesso non vengono denunciati gli episodi di violenza fisica e/o psicologica? E perché le vittime non di rado ritirano le denunce e ritrattano le dichiarazioni durante il processo?

Le risposte sono dei macigni e si tratta della dipendenza economica e della dipendenza emotiva.

Spesso, mi conferma il magistrato, le donne che subiscono violenza dai mariti o dai compagni non hanno l’indipendenza  economica per andare via di casa, magari con dei figli piccoli. Rifiutano l’idea di essere collocate in Comunità protette e quindi subiscono la violenza perché non hanno la possibilità di emanciparsi dai loro carnefici.

In teoria sono previsti degli strumenti volti ad aggredire una quota dello stipendio del coniuge per destinarlo alla vittima, ma in concreto questo strumento diventa inutile nel caso in cui lo stesso non lavori o lavori in nero.

La P.M. poi mi fa degli esempi eclatanti di dipendenza emotiva: donne massacrate ripetutamente dai compagni o mariti che poi ritirano le denunce e ritornano da loro.

A quel punto si rabbuia.

Sarò sincera avvocato, certune mi fanno una rabbia incredibile. Denunciano terribili violenze e poi ritrattano clamorosamente. Spesso si tratta di processi basati esclusivamente sulle dichiarazioni delle persone offese. Se poi in dibattimento ritrattano non esiste più alcuna prova. Fino a che punto mi devo spingere per aiutare chi non vuole essere aiutato? Questa è la domanda che mi faccio spesso.

Rimaniamo entrambe qualche secondo in silenzio, interrogandoci sulle motivazioni che spingono una donna che ha subito violenza a ritrattare tutto. Amore malato? Dipendenza? Rassegnazione? Sono le risposte che provo a darmi.

Stiamo facendo abbastanza per i nostri figli? le domando avvertendo il bisogno di trovare qualche risposta che non mi lasci un senso di sconfitta.

Avvocato mi viene in mente una parola: rispetto. Dobbiamo educare le nostre figlie al rispetto per loro stesse e i nostri figli al rispetto delle donne.

Alle ragazze direi di non sottovalutare le prime manifestazioni di aggressività dei partner. La violenza che sia verbale o fisica è sbagliata. Ai ragazzi direi di imparare ad accettare i no. Che il tentativo di riconquistare un amore perduto si può fare, ma con rispetto e gentilezza. Quando avvertono anche solo di dare fastidio in questo tentativo, quello è il momento di farsi indietro.

Dottoressa, le faccio un’ultima domanda. Lei pensa che avrebbe potuto fare qualcosa per Giulia Cecchettin?

Come pubblico ministero no mi risponde con decisione. Giulia purtroppo non aveva sporto alcuna denuncia. Come mamma non sono sicura di poterle rispondere. Mi sono interrogata molto sulla vicenda, soprattutto dopo aver ascoltato, come la maggior parte delle persone, l’audio che la ragazza aveva mandato alle amiche. Mi sono risposta che forse le avrei consigliato di non andare da sola all’ultimo incontro, ma non ne sono sicura. Non lo so…

Gli occhi della magistrata si velano di pagliuzze rosse, sono sicura che lei abbia colto la mia stessa reazione.

Ci salutiamo, forse è stata solo un’interessantissima chiacchierata tra donne e giuriste. Forse le nostre riflessioni e i nostri spunti possono essere una piccola goccia in un mare di donne che non vuole e non può più guardare dall’altra parte.

 

Rosalia Alberghina

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